Che volete che vi dica?
Io lo sentivo che presto avrebbe lasciato questo mondo non più suo, da più anni non più suo, forse mai suo. O forse non sentivo proprio nulla, era solo un evento facile da prevedere. Comunque mi sono immaginato spesso di leggere questa notizia. Me l’aspettavo, oserei dire. Immaginavo come avrei reagito, cosa avrei provato ed eventualmente scritto, io che gioco a fare il suo alter ego, con la sua fotografia nell’avatar e il suo nome tutto in maiuscolo, SYD, come un titolo o una targa. Io che in realtà, aldilà di quel senso di vicinanza e affinità così presunto e presuntuoso, ho cominciato a farmi chiamare come lui perché qualcuno doveva pur omaggiarlo. Ricordarlo. Da vivo, soprattutto. Ché una volta morto, pensavo, sarebbero capaci tutti di ricordarlo, di dire che l’anno sempre amato, di definirlo uno che ha fatto la storia.
E invece adesso è morto per davvero, si è spento il suo corpo per intero, con trentasei fottuti anni di ritardo rispetto al suo genio. Ed eccomi qua, senza uno straccio di parola. Senza slanci o vagheggiamenti poetici. Come privo di dimostrare affetto, impossibilitato nel provare tristezza. Desensibilizzato. Forse, più semplicemente, non ho ancora ben realizzato.
Però, pensavo, perché essere tristi? C’è come una liberazione insita nel suo addio: niente più morbosità e pettegolezzi, niente più foto o video a violare un uomo che ha preferito – un po’ per spirito, un po’ per necessità di sopravvivenza, parecchio per malattia – la tranquillità al clamore, l’oscurità alla ribalta, la normalità all’idolatria. Diventando così un mito, forse l’ultimo dei miti. Di certo quello con la storia meno codificata e più irripetibile fra tutte quelle che si potrebbero tramandare.
Fu con mio grande stupore, molti anni fa, scoprire che alla sorgente dei Pink Floyd avrei trovato qualcosa di misterioso e dimenticato, qualcosa di così estremamente unico e affascinante. “Possibile che ci sia stata una formazione dei Pink Floyd senza Gilmour, e che la stessa sia stata tanto geniale e celebrata come dicono? Possibile che sia esistito qualcuno che sia riuscito a capeggiare persino Waters?”. Mi ponevo domande del genere mentre Patrizio, un vecchio amico e compagno di liceo, mi apriva la porta su questa storia. Chissà perché poi non ho provato ad approfondire, insieme al Pat. E dire che ne avrei avuto bisogno: per molto tempo ho creduto che Syd fosse già morto. Probabilmente pensavo ai vari Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin, Brian Jones e compagnia suonante; se loro non ce l’avevano fatta, perché mai Syd sarebbe dovuto restare? (Perché non c’è alcuna “J” nel suo Roger Keith ‘Syd’ Barrett – sarebbe stata una risposta interessante.) E come? E dove? La logica, a volte, non vale nulla.
È morto a sessant’anni suonati. Pochi, oggigiorno. Ma sono più di quanto Kurt Cobain e Jeff Buckley messi insieme abbiano vissuto. Ha perso i capelli, ha conosciuto le rughe e le vene varicose, si è fatto grasso e incanutito. Ha scoperto la bruttezza, ha patito il fiatone facendo le scale, si è ammalato di diabete. Eppure questo sì, è triste eccome. I miti muoiono giovani, e restano tali per l’eternità. Per Syd, invece, ci è voluto un commovente Waters a cantargli Remember when you were young – You shone like the sun. Perché sì, era stato giovane, giovane veramente, giovane tra tanti coetanei sempre stati vecchi. E perché magari non se lo ricordava già più, nel 1976. (Ma che razza di anno scelsero i Pink Floyd, per farsi uscire dalla gola quel grido verso Syd che fu “Wish You Were Here”? A metà esatta dei suoi giorni… mette i brividi.) O perché forse perché avrebbe fatto troppo male ricordarlo, di esser stato colui che splendeva come il sole.
Che volete che vi dica. Dovrei sciogliermi con ogni verso di “Shine on You Crazy Diamond” ed essere tanto bravo da coinvolgervi nell’incanto? E quanto potrei andare avanti citando i suoi innumerevoli versi? O forse dovrei commuovervi raccontandovi trent’anni di vita da recluso, alla ricerca forzata dell’anonimato, in fuga perpetua dal passato? No. E in fondo, che cosa ne posso sapere veramente, mh? Però so che un pochino di ragione ce l’avevo: Syd è morto molto tempo fa, come accadde alle altre leggende del rock. Ma non contento e per nulla banale, decise che per un Syd Barrett che moriva giovane, c’era un Roger Keith che voleva sopravvivere… e ci è riuscito, almeno fino a venerdì scorso. Chissà a quale prezzo. Poi, non contento, ha lasciato in vita anche la sua creatura, che è cresciuta e diventata più grande di quanto avrebbe potuto immaginare; diverso da quasi tutti gli altri che, come qualcuno mi disse tempo addietro, “sono morti e si sono portati la loro creatura nella tomba”.
Pazzo Diamante. Oh, were are you now? Splenderai ancora: se lo hai fatto dall’oscurità di una vita anonima e mediocre, figuriamoci dalle stelle.
Il cinismo si traduce anche così: finalmente c’è qualcuno per cui provare del dolore. Sì, finalmente: fosse mai che ci scrolliamo un po’. Così svuotati di umanità da divenirne affamati. E la tristezza è spesso sincera, quindi salvifica a maggior ragione. Anche se poi piangiamo qualcuno che era come morto da lungo tempo. Ma va bene così: una faccina triste, una foto, una frase scritta col cuore. Qualcuno a cui poter rendere il giusto tributo.
Che volete che vi dica? Che sto generalizzando? Che sto vaneggiando forse? Che la mia crescente incapacità di piangere è una disgrazia da cui siete distanti? Beh, è tutto vero. O forse no. Magari dopodomani sono di nuovo qui a scrivere un post tenerissimo e strappalacrime per Syd. Io per il momento sento solo un senso di stanchezza. Come quando torni dal funerale di un parente lontano; il lutto è cosa di ieri, magari di domani, e tu oggi vuoi solo toglierti le scarpe lucide e buttarti sul letto. Dormire a lungo.
Non vorrei che davvero con Syd se ne sia andato un pezzettino di me: potrebbe essere uno di quelli più sensibili. Però si spiegherebbero molte cose. Certo, non si spiegherebbe il perché io sia qui, a scrivere nel cuore nella notte questo pensiero inconcludente, estraniato, che tradisce qualche affanno. Però chiarirebbe il fatto che le mie parole appaiano vuote, come tirate fuori a forza. Come se se stessi scrivendo perché non potevo non farlo. Ed è vero, perché l’aggettivo più vero che io possa dare a questo post è ‘inevitabile’.
Non manca così anche il mio di tributo, non mi sottraggo al rito. Ma non era questo che avevo immaginato di provare, e quindi scrivere. A maggior ragione mi sento in colpa, ora, ad usare quel suo stesso soprannome. Ma non voglio parlare di SYD, sono qui per Syd. Quantomeno per rispondere a queste sue parole:
“Won’t you miss me? Wouldn’t you miss me at all?”
…
Ma Syd, dai, che cazzo di domande. Certo che ci mancherai. A me manchi da quando ti trovai.
(9 luglio 2006)