Naufragio

Sorgente: Naufragio

…è passato un lustro da quando pubblicai questo scritto su Sydness (che all’epoca era ancora domiciliato su splinder, nda), nonché l’esatto doppio del tempo da quando lo scrissi. La prima cosa che mi vien da pensare, rileggendomi oggi, è: accidenti, quant’ero permeabile. E dire che a malapena pioviginava.

Dieci anni. Eppure, a guardarmi indietro, non mi vengono le vertigini. Il tempo, più che uno strapiombo, oggi mi sembra un pendio o una scalinata: necessariamente ti ci abitui, a vedere tuoi ieri che s’allontanano a mano a mano.

“Sei un fotografo emozionale”, disse

Gelido vento orientale in prua, arranco e mi inclino come fossi in salita.
Sotto l’ombrello vedo in trasparenza le gocce di pioggia che non mi hanno bagnato.
Una scarpa slacciata, un guinzaglio abbandonato nell’erba.
Umido e rigido ma leggero, come un ventaglio nell’afa estiva.
Non imparerò mai a suonare uno strumento come si deve.
So fare altre cose.
Non scriverò mai una canzone che mi piaccia ascoltare.
So dire altre cose.
Ma intanto, sto zitto in questo nulla.
Non ho i capelli che vorrei, il naso che vorrei, le spalle che vorrei.
Bravo ad immaginarmi bello, questo sì. A volte sento oppure sogno che, a forza di pensarla, potrei rendere reale tale bellezza. A volte sorrido al pensiero di questa possibilità. Altre volte, quasi confondo quest’altra realtà con l’unica che sia misurabile con gli occhi; poi mi ritrovo ad esibire una sicurezza misteriosa, che mai mi è appartenuta.
Stamattina mi specchio nella vetrina di un bar… e cerco di essere più sincero.
Non sono uscito da uno dei miei avatar, non assomiglio a chissà quale mito.
Io, soltanto io. E il vento ha spezzato l’ombrellino, e la luce è fioca e grigia.
E il laccio della scarpa è zuppo, e non ho voglia di chinarmi per riannodarlo.

Altri pensieri che più non ricordo.
Delicati, non opprimenti, ma non per questo felici.
Quanto dura un caffè? Il tempo di rivederli e dimenticarli ad un tempo.

(gennaio 2008)

1946-2006

Che volete che vi dica?

Io lo sentivo che presto avrebbe lasciato questo mondo non più suo, da più anni non più suo, forse mai suo. O forse non sentivo proprio nulla, era solo un evento facile da prevedere. Comunque mi sono immaginato spesso di leggere questa notizia. Me l’aspettavo, oserei dire. Immaginavo come avrei reagito, cosa avrei provato ed eventualmente scritto, io che gioco a fare il suo alter ego, con la sua fotografia nell’avatar e il suo nome tutto in maiuscolo, SYD, come un titolo o una targa. Io che in realtà, aldilà di quel senso di vicinanza e affinità così presunto e presuntuoso, ho cominciato a farmi chiamare come lui perché qualcuno doveva pur omaggiarlo. Ricordarlo. Da vivo, soprattutto. Ché una volta morto, pensavo, sarebbero capaci tutti di ricordarlo, di dire che l’anno sempre amato, di definirlo uno che ha fatto la storia.

E invece adesso è morto per davvero, si è spento il suo corpo per intero, con trentasei fottuti anni di ritardo rispetto al suo genio. Ed eccomi qua, senza uno straccio di parola. Senza slanci o vagheggiamenti poetici. Come privo di dimostrare affetto, impossibilitato nel provare tristezza. Desensibilizzato. Forse, più semplicemente, non ho ancora ben realizzato.

Però, pensavo, perché essere tristi? C’è come una liberazione insita nel suo addio: niente più morbosità e pettegolezzi, niente più foto o video a violare un uomo che ha preferito – un po’ per spirito, un po’ per necessità di sopravvivenza, parecchio per malattia – la tranquillità al clamore, l’oscurità alla ribalta, la normalità all’idolatria. Diventando così un mito, forse l’ultimo dei miti. Di certo quello con la storia meno codificata e più irripetibile fra tutte quelle che si potrebbero tramandare.

Fu con mio grande stupore, molti anni fa, scoprire che alla sorgente dei Pink Floyd avrei trovato qualcosa di misterioso e dimenticato, qualcosa di così estremamente unico e affascinante. “Possibile che ci sia stata una formazione dei Pink Floyd senza Gilmour, e che la stessa sia stata tanto geniale e celebrata come dicono? Possibile che sia esistito qualcuno che sia riuscito a capeggiare persino Waters?”. Mi ponevo domande del genere mentre Patrizio, un vecchio amico e compagno di liceo, mi apriva la porta su questa storia. Chissà perché poi non ho provato ad approfondire, insieme al Pat. E dire che ne avrei avuto bisogno: per molto tempo ho creduto che Syd fosse già morto. Probabilmente pensavo ai vari Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin, Brian Jones e compagnia suonante; se loro non ce l’avevano fatta, perché mai Syd sarebbe dovuto restare? (Perché non c’è alcuna “J” nel suo Roger Keith ‘Syd’ Barrett – sarebbe stata una risposta interessante.) E come? E dove? La logica, a volte, non vale nulla.

È morto a sessant’anni suonati. Pochi, oggigiorno. Ma sono più di quanto Kurt Cobain e Jeff Buckley messi insieme abbiano vissuto. Ha perso i capelli, ha conosciuto le rughe e le vene varicose, si è fatto grasso e incanutito. Ha scoperto la bruttezza, ha patito il fiatone facendo le scale, si è ammalato di diabete. Eppure questo sì, è triste eccome. I miti muoiono giovani, e restano tali per l’eternità. Per Syd, invece, ci è voluto un commovente Waters a cantargli Remember when you were young – You shone like the sun. Perché sì, era stato giovane, giovane veramente, giovane tra tanti coetanei sempre stati vecchi. E perché magari non se lo ricordava già più, nel 1976. (Ma che razza di anno scelsero i Pink Floyd, per farsi uscire dalla gola quel grido verso Syd che fu “Wish You Were Here”? A metà esatta dei suoi giorni… mette i brividi.) O perché forse perché avrebbe fatto troppo male ricordarlo, di esser stato colui che splendeva come il sole.

Che volete che vi dica. Dovrei sciogliermi con ogni verso di “Shine on You Crazy Diamond” ed essere tanto bravo da coinvolgervi nell’incanto? E quanto potrei andare avanti citando i suoi innumerevoli versi? O forse dovrei commuovervi raccontandovi trent’anni di vita da recluso, alla ricerca forzata dell’anonimato, in fuga perpetua dal passato? No. E in fondo, che cosa ne posso sapere veramente, mh? Però so che un pochino di ragione ce l’avevo: Syd è morto molto tempo fa, come accadde alle altre leggende del rock. Ma non contento e per nulla banale, decise che per un Syd Barrett che moriva giovane, c’era un Roger Keith che voleva sopravvivere… e ci è riuscito, almeno fino a venerdì scorso. Chissà a quale prezzo. Poi, non contento, ha lasciato in vita anche la sua creatura, che è cresciuta e diventata più grande di quanto avrebbe potuto immaginare; diverso da quasi tutti gli altri che, come qualcuno mi disse tempo addietro, “sono morti e si sono portati la loro creatura nella tomba”.

Pazzo Diamante. Oh, were are you now? Splenderai ancora: se lo hai fatto dall’oscurità di una vita anonima e mediocre, figuriamoci dalle stelle.

Il cinismo si traduce anche così: finalmente c’è qualcuno per cui provare del dolore. Sì, finalmente: fosse mai che ci scrolliamo un po’. Così svuotati di umanità da divenirne affamati. E la tristezza è spesso sincera, quindi salvifica a maggior ragione. Anche se poi piangiamo qualcuno che era come morto da lungo tempo. Ma va bene così: una faccina triste, una foto, una frase scritta col cuore. Qualcuno a cui poter rendere il giusto tributo.

Che volete che vi dica? Che sto generalizzando? Che sto vaneggiando forse? Che la mia crescente incapacità di piangere è una disgrazia da cui siete distanti? Beh, è tutto vero. O forse no. Magari dopodomani sono di nuovo qui a scrivere un post tenerissimo e strappalacrime per Syd. Io per il momento sento solo un senso di stanchezza. Come quando torni dal funerale di un parente lontano; il lutto è cosa di ieri, magari di domani, e tu oggi vuoi solo toglierti le scarpe lucide e buttarti sul letto. Dormire a lungo.

Non vorrei che davvero con Syd se ne sia andato un pezzettino di me: potrebbe essere uno di quelli più sensibili. Però si spiegherebbero molte cose. Certo, non si spiegherebbe il perché io sia qui, a scrivere nel cuore nella notte questo pensiero inconcludente, estraniato, che tradisce qualche affanno. Però chiarirebbe il fatto che le mie parole appaiano vuote, come tirate fuori a forza. Come se se stessi scrivendo perché non potevo non farlo. Ed è vero, perché l’aggettivo più vero che io possa dare a questo post è ‘inevitabile’.

Non manca così anche il mio di tributo, non mi sottraggo al rito. Ma non era questo che avevo immaginato di provare, e quindi scrivere. A maggior ragione mi sento in colpa, ora, ad usare quel suo stesso soprannome. Ma non voglio parlare di SYD, sono qui per Syd. Quantomeno per rispondere a queste sue parole:

Won’t you miss me? Wouldn’t you miss me at all?

Ma Syd, dai, che cazzo di domande. Certo che ci mancherai. A me manchi da quando ti trovai.

 

 

(9 luglio 2006)

 

Come isole

 

Tipicamente autunnale,
lasci la città ancora tiepida e luminosa
chiudi gli occhi sul sedile davanti
li riapri sul vetro a lato
e già fa freddo, e già è buio.
Così uguale a un qualsiasi ritorno
da un giorno di scuola a tempo prolungato
quando era novembre e non studiavi
“rimedierò poi, adesso non mi va”
era il tempo di nuove paure e diffidenze
di rinnovate timidezze.
Ci si conosceva quasi tutti, sì
ma l’estate portava via un po’ di memoria
in cambio di amici a tempo determinato
o come spesso accadeva, era avara
e offriva lunghi pomeriggi di silenzioso sole

e troppi gelati
e giochi noiosi.
Erano solo compagni di classe, in autunno
alcuni erano sempre lontani e scenografici
sagome grigie come colleghi in un ufficio finto
ma anche i più vicini e vivi non li trovavo divertenti
non ero poi molto contento di rivederli
accostavo le loro esistenze al mio sonno doloroso
e ai compiti per casa che non riuscivo mai a finire in tempo
loro, con cui avevo condiviso giochi e risate nella primavera precedente
erano ora rivali nel momento della di un’interrogazione troppo prematura
e diventavano persino nemici nel momento in cui ero io ad essere chiamato
e non mi strappavano più nemmeno un sorriso.
Poi la nebbia svaniva, e con essa le amnesie
ed ecco le sagome animarsi, i nemici allearsi
la grande finestra oltre il banco
guardavo i marciapiedi inzuppati d’acqua, le foglie macerate
ed ora mi piace pensare che quel manto rugginoso e lucido
fosse così scivoloso per poterci far scorrere velocemente, lontano dai timori
e scivolando via ci ritrovavamo sulla soglia di un nuovo anno.
Le feste che finiscono subito
l’inverno che non finisce mai
eppure è già marzo, il tempo è volato
“no, ma che dici”
“ma se è stato un attimo”
e chiacchierando è già maggio
alcuni sono rimasti compagni
altri si sono messi in testa di entrarti nel cuore.
Era proprio necessario?
Non posso neanche fissare la luna in pace
mi toccherà ricontarvi tutti, comparse comprese
e se dimenticherò qualcuno non me ne accorgerò
oppure mi dirò “pazienza, non è possibile ricordarsi di tutti”
ma se un giorno una visione dovesse rinverdire la mia memoria
allora sentirò forte il bisogno di scusarmi
con la comparsa scomparsa che comparsa non era
e mentre cercherò goffamente di spiegare queste cose
la comparsa ricomparsa mi guarderà con aria confusa
e forse si convincerà ch’io sia diventato pazzo

o un tossico, magari.
Avrà ragione in ogni caso:

la mente si ammala di ricordi,
e la nostalgia genera dipendenza.

Scorrono le ultime case,
stacco gli occhi dal finestrino e lo sguardo dagli autunni di ieri
mi caccio nella giacca
frenata
saltino
sono in strada.
Il vento fa roteare un ricciolo arancione
e la tentazione di imitarlo mi assale.
Anch’io un ricciolo di foglia che si lascia trascinare
così, riarso e fragile e moribondo
sull’asfalto, pronto a sfaldarmi un caldo crepitio
e invece no
non si può essere così deboli
già sdraiati sulla strada in cambio di qualche onda d’aria
mentre le altre foglie tue simili, quest’anno
rimangono aggrappate con tutta la forza
a quegli alberi che hanno ancora folte chiome
e le piogge tardano ad instaurare il loro regno triste
ed a spezzare questo verde abbraccio. No
io tardo con loro, senza  farmi spezzare
dalla stanchezza, e dalla nostalgia.
E quest’ultima è semmai forza
quella che mi fa restare intero
vivo
e non mi fa perdere la via di casa
come una corda invisibile
come quella striscia dipinta sulla strada
a cui t’aggrappi con tutte le forze quando,
inghiottito dalla notte
o dalla nebbia, o dai cattivi pensieri
la tua auto sbanda per un istante
e i tuoi occhi stanchi ci vedono così poco
ma non puoi morire in un abitacolo
e allora quella corda bianca è l’unica salvezza
e le mani stringono il volante
ma le vere mani sono ora le due ruote a sinistra
e non puoi mollare
non vuoi
non devi.

Cammino lento
non voglio approdare alla meta
senza che l’energia di questo pensiero si esaurisca
e poi, mi chiedo, in cosa si trasforma l’energia di un pensiero
se per definizione non può morire?
Può l’anima
essere lo specchio dell’universo
e come esso dilatarsi all’infinito
fino a sfaldarsi?
Il cuore è una supernova
collasserà su se stesso fino all’apatia
poi esploderà
creando un’ellisse luminosa
ed una nuvola di gas e materia balenerà tra le stelle
pare quasi di poterla già vedere
guardala
è un’immagine di sublime bellezza
e tanta più luce si vedrà
attorno a chi ha tanto amato
e quanta più materia viaggerà nello spazio
creando altri corpi, altra vita
l’unica memoria immortale
fatta non di immagini
ma di atomi
eravamo non polvere
ma stelle
e stelle torneremo, un giorno.
Magari è solo un dio che espira
poi inspirerà
il cosmo collasserà su se stesso
e tornerà ad essere grande come una biglia
solo allora ci ritroveremo

ci riuniremo
tutti.
E invece

la corsa non rallenta
le galassie si allontanano a velocità sempre crescente
gli spazi diventano via via più sconfinati.
Allora penso a noi umani
a noi puntini invisibili
noi anime stupite
che guardiamo la luce delle stelle
così lontana nello spazio e nel tempo
e quindi penso che anche noi non facciamo che allontanarci
e la luce delle persone cui abbiamo voluto bene
non riesce a seguirci, ma resta in un passato sempre più remoto
e noi, come fiondati da un’orribile energia propulsiva, ci dividiamo
e le nostre distanze diventano incolmabili
dilatate 
da distrazioni e pigrizie quotidiane
dall’orgoglio e dall’orologio
da questa vita stanca
ché siamo così deboli
è quindi di un’energia negativa si tratta
ma pur sempre energia,
non muore.

Non muore
la mia ostinazione
a tenere con me quel che resta di quei volti
quelle voci
quelle immagini
come avvolte da un’opaca pellicola
e come una pellicola
posso fermarmi su un fotogramma
ma non giro io la bobina
c’è un proiezionista sconosciuto
molto incostante
ma a volte si sveglia
cambia il rullo
ed ecco un filmato inaspettato
stop.
Un fotogramma dimenticato
torna indietro
stop.
Fammi una copia di questo
non si può
devi chiudere gli occhi
e stringere tra le palpebre quell’immagine, quel ricordo
ma è già così sfumato…
Ecco il segreto
per cui la sera ci si ritrova a scrivere
non è altro che il disperato tentativo
di fissare nelle parole certe immagini sfuggenti
certe sensazioni che ti trapassano
e che potrebbero non tornare più
così chiedi alle lettere di correre veloci
e di inseguire te stesso
e non è che la rincorsa verso il ricordo di un ricordo
che si è già trasformato
e suona così fittizio nelle parole
romanzato un poco
eppure sincero.
Ogni istantanea che ti attraversa
e che ti coglie sempre impreparato
provi poi a cercarla
e a raccontarla che la miglior metafora che puoi permetterti
ma al cospetto di quel lampo
ogni sforzo linguistico appare così flebile
ogni metafora così misera, insufficiente.
Tuttavia ricordo che una volta
fui colpito da una sensazione anche più potente del solito
e nostalgia e malinconia furono così energiche nello scuotermi
che provai subito a disegnare quell’attimo.
Così vidi questo:
io che cammino ignaro
poi qualcosa o qualcuno
passa e mi squarcia la gola
e mi versa dentro un liquido tiepido e salato.
A voi non è mai capitato?
Mi riferisco a quegli istanti
in cui hai la sensazione improvvisa che entri più ossigeno nei polmoni
come se l’aria entrasse direttamente dalla trachea, oltre che dal naso
e una frazione di secondo dopo
senti che dentro a quel collo come aperto
ci sia rovesciato dentro un liquido caldo ma

non così tanto da scottarti
anzi tiepido, doloroso e piacevole al tempo stesso
e lievemente salato
ne senti chiaramente il retrogusto in fondo al palato
e quel sapore l’hai già sentito, ti rammenta qualcosa
qualcosa che pensi sia importante
importante da rammentare
e allora lo cerchi con la lingua ma
è scappato via
e ti sta già riempiendo il petto
e quello è il momento cruciale
quando ti manca il fiato
sgrani gli occhi
e la mente mette a fuoco quella diapositiva
è tanto bello quanto triste
tanto che senti che piangere non basterebbe
e non ne avresti il tempo da quanto è tutto così rapido
ed il liquido salato e tiepido, così simile proprio alle lacrime
sta già colando via
sprizza da tutti i pori come l’acqua dal telefono della doccia
e tu, umana fontana
cerchi di fermare l’emorragia con le mani
di fermare quindi il tempo, o quantomeno di dilatarlo
ma due mani sono troppo poche
e in ogni caso troppo piccole
e il liquido piove via
si raffredda all’aria di novembre
e resti immobile in una pozzanghera gelida
che riflette questa luna bianca
e con essa
tutti i volti di coloro che ti mancano
e ai quali troppe cose non hai detto
e che per questo cerchi nelle notti.
Poi un ultimo riverbero
è forse il senso di colpa
forse una stella, metaforica o reale
ma ormai è lo stesso
ti devi muovere
arrivare finalmente a casa
e metterti a scrivere con i piedi ancora zuppi
per provare a fissare quelle immagini, cristallizzarle
nell’impossibilità di cristallizzare le persone
il tempo
l’universo
e con essi
tutta quell’energia invisibile che non smette di scuoterti
e che ti porta fino all’ultima parola, ansimando
quindi all’
ultimo respiro
prima di implodere
di non essere più.
Poi l’esplosione
e quanta paura ho di non far rumore
quanto mi fa male l’idea
che non mi vediate brillare
forse perché troppo lontani
e non perché non avrò abbastanza amato
ma perché l’avrò troppo poco dimostrato
e per questo
esser da tutti voi dimenticato
no, no
voglio essere anch’io versato
in voi, liquido tiepido e salato
per rendervi un po’ di quella vita
che in vita mi avete dato

 


(lunedì, 6 novembre 2006)

Rincasare

La nebbia che smussa gli angoli,
la luce dei lampioni che sembra svaporare,
un cane che abbaia.
È strano rincasare la notte
sei solo nella via e ti sembra di esserne il re
senti la percussione dei tuoi passi
il sibilo del tuo respiro
un allarme lontano che squarcia appena la quiete.
Piccoli tasselli di luce gialla si accendono dietro una persiana
Immagino ogni possibile umana attività:
una giovane coppia in una cucina, che si è appena rialzata
per mangiare, dopo le fatiche del sesso
o dopo le soddisfazioni d’una discussione fitta;un anziano signore insonne che era già in piedi
e mi ha sentito sfrecciare sul marciapiede;
o forse quella è la finestra di un bagno
semplice no?
Poi penso a tutte quelle altre finestre che guardano sulla strada
la luce è spenta in quelle stanze
e in quel buio chissà quante vecchie pettegole
mi faranno un identikit per sapere chicomequando

nel dubbio faccio una boccaccia, poi sorrido.

È strano rincasare la notte

a casa c’è più silenzio di quando ero solo

però mi aspettano svegli il gatto

e una cena da scaldare.

Un caffè notturno

la telefonata della buonanotte

mi collego un po’

la Rete è come il gatto e la cena

ancora sveglia cioè

io ho poche idee ma confuse

ancora sveglio, ma non ne sono proprio certo

sebbene sia facile capirlo:

se domani ritroverò questo pensiero scritto,

vorrà dire che non era un sogno.

Le coperte mi chiamano, sirene

amo il loro calore

ma le temo perché hanno il sapore della routine

e domani mi sveglierò sotto di loro, come stamattina

e poi tutto il resto

domani uguale a oggi uguale a ieri

anche i miei post sempre più uguali tra loro

chissà poi dove si va a nascondere

quella sensazione che qualcosa di speciale accadrà a breve

e che ti assale sempre nei momenti meno opportuni

quando non la puoi pensare né scrivere

però ti rimane

e allora finisci il tuo turno serale

torni a casa tra mille stranezze normalissime

e mentre le racconti

tenti di ricordare una sensazione che non sai nemmeno cos’è

ti basta il ricordo

per farti stare un po’ meglio

per allontanare l’idea che la tua vita sia traslata

per farti cedere al canto delle sirene

finalmente.

Così arrivo alla buonanotte che è quasi giorno

ma va bene

sono stanco di farmi domande inutili

e il cane di prima tace

e le signore impiccione sono tutte crollate

e le luci nelle stanze si accendono ancora, si

ma sono quelli che anche oggi si alzano per andare al lavoro

insomma, è troppo tardi

e non trovo buoni motivi per restare

sono già spento io

spegniamo anche le cose intorno

poi chiudiamo gli occhi

facciamoci cullare dal canto dei primi uccellini

e soffochiamo queste troppe parole sotto il cuscino

e poi sotto anche la testa

chissà che non smetta anch’essa di far baccano

e di farmi stare in pensiero

shhh

(29 ottobre 2005)

Airone

 
rappresentare qualcosa che sia fatta di nulla
non rimarcare una forma, suggerirla appena
riuscire sussurrare negli occhi di chi guarda.
 
sottrarre carta al colore
ritagliare l’aria e darle
un becco e due zampe.
 
disegnare
senza
segnare

Inviato su syd

Io di celluloide (cut)

I

Voglio una vita come quelle dei film
personaggio di me stesso
un poco malinconico dietro al broncio
(beh, come nella realtà)
ma bello, fascinoso
col passo sicuro, padrone della scena
(beh, non proprio come nella realtà).
 
Sempre con la colonna sonora perfetta
il ritmo giusto
una bella canzone nelle orecchie
anche se sei per la via o in ufficio
e non hai le cuffie in testa
e la musica scandisce i momenti
crea perfette atmosfere
e, a volte, è scritta apposta per te
e se ti annoi
arriva il pezzo giusto, in diffusione
scelto tra gli archivi musicali
di tutto il mondo
di tutti i tempi
tutte le culture
e colori.
Tutti gli strumenti, suonati dai più grandi
tessono il sottofondo delle mie giornate
e sottolineano stati d’animo e d’azione:
un giro serrato di basso quando sono teso
e chi mi vuol ferire cammina su una batteria
ch’io possa sentire i suoi passi;
un lancinante chitarra blues quando ‘ho i diavoli’
o un morbido sax tenore quando guardo la città dai tetti
o quando il mio passaggio squarcia il vapore che sale dai tombini
un contrabbasso legnoso mentre mi aggiro in quartieri lussuosi
o quando io e una bella ragazza ci divertiamo
un pianoforte leggero e triste, e scorrevole, e cromatico
quando scrivo di me stesso
o quando piango in silenzio
e poi un potente e gotico coro di baritoni
una voce tragica
per sottolineare la mia fine.
 
Sempre con le luci giuste:
calda e perpendicolare di giorno,
traccia ombre brune e segni decisi sul mio volto
e poi di notte,
in casa, in un bistrot, o per le strade di città
sempre quella luce d’un blu chiaro
che dipinge due quarti
di me, del mio trequarti
nero sarà il quarto centrale
e rossa lultima fetta
o la sola linea di contorno della testa
come un ipotetico lato oscuro della luna
illuminato da un pianeta in fiamme.
Oppure un film in bianco e nero
poco bianco, molto nero
grigio pochissimo, se non quando la nebbia m’avvolge le membra
o quando il pennacchio d’un treno a vapore riga la notte
ed il mio ed il tuo ed ogni altro corpo
saranno maestose fotografie, sempre un filo sottoesposte
oppure tavole a china, fumetti
sempre ben disegnati e pieni d’invenzioni
e dalla bocca non più voce, ma lettere
un bel film adattato in albo
cartonato, pubblicazione specialissima e numerata
posto di rilievo nella libreria
qualcosa da conservare, insomma
come una vita indimenticabile
in edizione limitata.
 
E avrei un lavoro appassionante e terribile insieme
come quelli di Redford o di Russell o di Eastwood
o i migliori in assoluto, forse, se fossi collega di Ford
ma quelli troppo espressivi di Brando e De Niro
di Hoffman e Pacino
no
non ne sarei all’altezza.
O ancora ladro di pasta e fagioli,
scuola serale dal più grande comico del mondo
o mille altri lavori da film
sempre ideali
vi basti pensare
che ti lasciano sempre un sacco di tempo libero.
Oppure disoccupato, va bene
se poi hai il mento di un Travolta
ed anche le sue anche
e le mani di un Fonda
la chioma dun Redford, la barba dun Russell, il naso dun Eastwood
(sì, gli stessi tre che avevo fatto licenziare)
e la fronte di un Connery
le sopracciglia di un Nicholson (ed i suoi denti pure)
i baffi di un Selleck
il broncio di uno Steiger
gli occhi di un Newman
o anche solo
lo sguardo di un Dean
che non invecchia mai.
Una visione vagamente viso-centrica
ed ultra-virile (misogina? chissà)
ma questo passa oggi il convento dei “voglio”
è necessario giustificarlo?
Se fossi un personaggio
uno come quelli che cerco di raccontarvi
non mi chiedereste nulla
vi basterebbe la mia sola presenza scenica
né io perderei tempo a spiegare quel che faccio
per primo a me stesso
come invece ora
perché non sto dentro ad alcuna pellicola
ma sono fuori
fuori di senno
fuori corso in questa vita fin troppo poco finta,
Fuori orario.
 

II

Voglio una vita così
come Steve McQueen
su macchine rombanti a stelle e strisce, un attimo prima
in prigioni esotiche ed allucinanti, un attimo dopo
ma sta bene, “è solo un film”
anche se è una storia vera, non ha importanza.
Una vita dove non devi perdere il tempo a dire cosa vuoi
dove non c’è bisogno di ventilatori, se fa caldo
o di indumenti ridicoli e goffi, se fa freddo
una vita
con dodici mesi d’estate
e tre mesi d’inverno
(si, sono brevi questi anni veri)
un’estate così lunga che racconterò altrove
e un inverno piccino
che si chiude in un Dolcevita

o nella tasca di un cappotto
sempre con la neve, che invece già raccontai.
 
Lunatico ed istrionico figlio di buona donna
cattivo e divertentissimo
o tenebroso antieroe
ammalato di solitudine
eppure da essa ingigantito
ma smarrito
in fumosi e malfamati bar
o colorati e accoglienti diners
o solitari e lampeggianti motel
o in metropolitane buie e delittuose
ai piedi danzanti calzature impeccabili
sulle larghe spalle un impermeabile calzante
per ripararsi dalle gocce
d’una pioggia formato Niagara
e niente piedi nelle pozzanghere e grigiore
né ombrellli rotti, né raffreddore;
una pioggia che vuol dire
cieli bianchissimi, pettinature perfette, muscoli guizzanti
e rivoli d’acqua che solcano i vetri d’un finestrone
e che ridisegnano il mio volto, per voi che guardate dall’esterno
e reinventano il paesaggio, per me che sto dall’altra parte
con l’asciugamano al collo ad ammirare corrucciato
alle mie spalle un fuoco acceso in un camino
e quel trench, sulla sedia, ancora in piega perfetta.
 
Affaccendato tra carte e ritagli e nastri
o in cerca di tesori inimmaginabili
comunque con la giusta battuta
la giusta situazione
sempre protagonista
scivoli teatrale da uno sguardo all’altro
come in uno storyboard di meccanica precisione
e sei sempre, o quasi, vincitore delle battaglie
e autore di imprese
rese eterne da inquadrature leggendarie
e magistrali carrellate.
Ti guardano gli altri
con gli occhi di un grande regista
scegliete voi quale
e danno significati particolari a tutto ciò che dici
e vedono una grande metafora nella tua vita
e ciò che fai è allegoria dei loro fantasmi
e molto, moltissimo altro ancora
che non si può scrivere tutto in una volta
già così è pressoché banale
eppure magico, contemporaneamente
atificioso e stupefacente
come un effetto speciale.

cut
 
 

 
(luglio 2005)

Pencil-ine

Ho sognato un’estate
lunga dodici mesi
ma non questa estate.
Dodici mesi di caldo secco
e brezza marina
e sabbia dietro le orecchie
e temporali con la voce grossa
ma che non portino via
il tetto della mia piccola casa
dipinta di bianco
né il mio taccuino, la mia biro nera
tanto mi basterà per appuntare i desideri
estivi
per un’altra estate
che non sia questa.
Un’estate sotto una pensilina, nell’ombra tiepida
ad aspettare un autobus che mi porti fuori città
autobus che emergerà dalla strada liquida
salgo, fiaccato dal suo incalcolabile ritardo
mi addormento sul sedile
e sogno un
’altra estate ancora
poi una buca mi sveglia
vedo la fermata da lontano
mi avvicino alla portiera
quindi scendo

a fotografare graffiti in periferia
a disegnare i ruderi d’una vecchia fabbrica
e a prendere un panino
e una birra sudata
presso un baracchino
mi serve un vecchino sorridente
e sdentato
poi risalgo svelto
e addento il panino
è buono
e ingollo la birra
sembrava più fresca
non fa niente.
Poi finisco di mangiare
mi volto, ecco la stazione
scendo
salgo su un treno che mi porterà
ancora più in là
ma faccio il biglietto, prima
(perché il biglietto lo si fa per onestà
o per non viaggiare chiusi nel cesso)
assorto, col naso sul finestrino
passa il carrello delle bevande
prendo un caffè
me lo allunga un viso
rassicurante
è amaro e annacquato
bollente
ma non fa niente
finisco di berlo, mi giro
eccomi in arrivo
una piccola stazioncina di montagna
con la sua piccola pensilina,
stavolta l’ombra è fresca
attraverso la minuscola biglietteria
ed esco sul retro
mi piomba addosso l’orizzonte
la linea frastagliata delle vette arancioni
sbozzate da uno scalpello azzurro.
Riprendo fiato e mi incammino
ancora in cerca di un’estate
delicata ed avventurosa ed eterna
che faccia fare brutta figura alla mia fantasia
che superi di gran lunga queste parole
un’estate in cui camminerò ancora
per raggiungere quei monti
costeggiando laghi preziosi
di smeraldo e argento
e berrò acqua gelida e invisibile
sputata da bocche urlanti di roccia
e un vedrò un tramonto che durerà un giorno intero
e infine arriverà una notte nera e trapuntata d’oro
e il rumoroso ricordo della giornata vissuta
e il fastidio di piccoli insetti sulle mie gambe
e il peso dell’universo sulla mia testa
non mi faranno dormire bene
ma non avrà importanza.
La visione delle cime
e del vuoto sotto di me
mi brucerà gli occhi
e verrà così con me, a valle
non ci sarà bisogno d’incastonarla
in righe, in versi, in rime
che mai saranno all’altezza
di quei monti, tramonti
di quella bellezza.
I piedi non ti fanno male
nei sogni
così mi troverete ancora a camminare
nelle pianure
ai confini col deserto
tra rovine di civiltà antiche e misteriose
sulle Ande, o sulle Montagne Rocciose
sulle Alpi
sugli Urali, o più in là
insieme ad uno sherpa muto e sorridente
o anche solo sugli Appennini
un puntino nella macchia sibilante ed odorosa
poi giù ancora
verso un angolo di Mar Tirreno
a passeggio per quella strada
che da casa mia,
quella dipinta di bianco col tetto fatto male,
porta al mare.
Ma
non camminerò su quel peschereccio
seduto remerò per far riposare il vecchio motore
e forse non vedrete neanche
la scia troppo piccola di schiuma bianca
il piccolo solco chiaro in un blu impossibile da ricreare
e sarò solo, in altomare
e non i miei desideri, ma le onde incessanti
mi scorteranno verso isole ancora inesplorate
e atolli di cui solo io saprò l’esistenza
e che non troverete in nessuna mappa del mondo
in nessun’altra fantasia del mondo.
O forse naufragherò
su spiagge popolate
da donne antiche
sposate a mariti poveri
che pescano con l’arpione
e nei villaggi turistici delle zone
sarò io quel tizio di cui sentirete parlare
e che verrà coi mariti indigeni al vostro villaggio
a vendere pesce e indicazioni
oppure verrete voi a cercarmi
per un consiglio
un passaggio in barca
per fare domande sulla mia storia:
Raccontaci, tizio strano
che parli l’italiano
Racconta, ché nel villaggio ci annoiamo
come ci sei finito quaggiù?
Al quel punto voi avrete trovato me
ma a quel punto io l’avrò trovata,
l’emozione a forma d’estate che cercavo
con cui io possa riempire il bianco di questo foglio?

 

(luglio 2005) 

Salva con nome

Tanti pensieri per la testa e nessuna voglia di scrivere.
I pensieri sono immagini, perché doverli tradurre in parole?

Sono capricciose le parole. A volte ti sembra di possedere la loro anima; poi, un secondo dopo, ti sono scivolate via come la sabbia che sfugge dal pugno. Scapperanno? Riuscirò a corrergli dietro? Riuscirò ad afferrarle?
A quanto pare la parole sono come farfalle: devi prenderle al volo quando le hai sotto tiro, sennò tanti saluti. Vedrai altre farfalle nella tua vita, ma non ne ammirerai più un’altra identica a quella che avevi, per un attimo, sfiorato. Però poi mi chiedo: è giusto catturare una farfalla e chiuderla, egoisti?
Forse non è giusto, ma lo farei: sono un animo meno gentile di quanto sembri. Ma a cosa serve far tanta fatica per riuscire a prenderla? Ne vale la PENA? Questo non lo so. Insomma, perché bisogna catturare le nostre più belle parole per rinchiuderle in un testo? E se muoiono è perché hai toccato le la polvere iridescente delle loro ali, intaccandone la purezza? E se anche loro finiscono l’ossigeno, nella tua gabbia a forma di pagina?
E per che cosa, per chi, perché. Per amore dell’arte, della letteratura? Per illuderci talentuosi? Per una dedica? Per autocompiacimento?

Mi piace scrivere, ma è sempre un eterno esercizio. Non è facile come respirare, vedere, bere, … disegnare. È bello e difficile come stare in apnea sott’acqua, come osservare e capire, come sorseggiare e gustare… come dipingere.
Eccolo, l’esercizio: l’architettura c’è, si vede, non è granché riuscita ed è pure poco spontanea.
Perché intestardirsi su qualcosa che spontaneo non è? Davvero per fissare i pensieri? E dire che finora non ne ho espresso alcuno.
Di certo si tratta di fissare qualche cosa… è voler catturare la vanessa, è cercare di fermare l’emorragia di arena.
Voler rendere visibile l’invisibile.
Voler fermare il tempo (ancora?).
Voler rendere immoto quello che viaggia alla velocità della luce.
Robe da pazzi. O da stupidi, probabilmente.

Viviamo nell’era dei dati. Tutto ciò che esiste diventa dato, se non sei registrato non esisti più. Non il tuo cuore pulsante, non i tuoi polmoni, non la tua testa, non la tua bocca…
E chi ha non ha paura del buio?
Il buio annulla, nel buio non esisti: e tu non vuoi questo.
Allora sotto, a registrare, appuntare, fissare, salvare.
SALVA, ti chiede il PC: termine quanto mai emblematico.
Tutto è salvare; anche l’andare alle feste, l’avere un cellulare o un indirizzo e-mail sui quali poter essere rintracciati, il chattare, il fare +1 sui forum.
Per utilità? Per divertimento? Sicuro, ma anche per dimostrare al mondo presente che esistiamo, e per non farci dimenticare da quello futuro: “Io c’ero”, appunto.
Noi, riversati nel server globale per far sapere ai presunti vivi che presumibilmente lo siamo anche noi.

Persino le esperienze sono dati.
Che cos’è oggi un viaggio, se non le foto che hai fatto?  Di certo non è lo spostamento, viaggi talmente veloce che non hai nemmeno la percezione di aver attraversato centinaia di kilometri.
Ti ritrovi lì, con l’ansia di guardare quante più cose possibili. Il racconto non basta più, nessuno crede più al verbo. Il tuo dato su pellicola o il tuo puzzle di megapixel è la tua vacanza… non c’è più nulla nei tuoi occhi, perché il tuo ricordo è un’esclusiva del rullino o della scheda di memoria.
C’è chi esplora gli anfratti più belli e magici e misteriosi del pianeta, poi torna a casa… ed è amaro  rendersi conto, capire che si è vista tanta bellezza attraverso la feritoia del mirino, realizzare che lo sguardo fissava uno piccolo schermo LCD e non l’immensità dell’orizzonte.


I pensieri corrono, e io li trasformo in dati di inchiostro binario.
Perché?
Non basta questa brezza notturna a se stessa?
Questo sassofono nelle orecchie, questo aroma di caffè, questo coro di grilli e rane; le risa dei bambini al parco, la via deserta battuta dal vento, il fulmine nel cielo e il tuono nel petto, la polpa dolce delle pesche e le piantine di basilico che illuminano di verde il mio balcone.
Non bastano così, per quello che sono? È necessario che io le descriva?
A chi interessa se ne faccio pensieri nella notte?
Ed è un bene oppure no, traslare in parola scritta pensieri che non accrescono la conoscenza collettiva?

Eccomi qua, con il paradosso dei pensieri sulla parola e sul dato che diventano essi stessi testo e file. Contraddizioni.
Perché ho salvato?

Mi tocco i muscoli, mi guardo nel riverbero dello schermo, ascolto il mio respiro.
Esisto, cazzo se esisto. A chi lo devo dimostrare?

E se poi non scrivessi… se non salvassi e non pubblicassi… forse sparirei?
Non mi sembra nemmeno un’idea troppo cattiva.
Non salvare più, non salvarmi più.
Non scrivere parole, non creare immagini… niente foto di sé stessi, niente firme sui documenti, niente tracce.
Dire “Io non c’ero” e poi sparire, scivolare nelle tenebre.
Affascinante, certo, ma serve coraggio.
E infatti ci sono, posterò questo messaggio e lo renderò visibile a centinaia di testimoni.

Anch’io sono un pezzo del Grande Archivio, anch’io un’espressione indelebile in un mondo da dimenticare.
P.S.

Potevi essere invisibile, SYD, ma dì la verità: sei un vigliacco che parla con se stesso per attirare l’attenzione! O forse è solo la dose delle 4 e mezza di filosofia spicciola, la tua… o forse, nulla più che una visione.
Peccato, potevi essere tu quella visione, e gli altri si chiederebbero se davvero ti hanno visto o meno.
Ma adesso piantala di dire cazzate e di parlare in terza persona.
Chiudi questo pensiero sballato e troppo lungo, scappa dal dato, diventa visione.
Chiudi il tuo cancello.
Cancellazione.

Ciao SYD
SYD

 

(15 luglio 2005)

E di polvere t’€™orneremo

Io non so mica se sono in grado. Come faccio a sistemare tutto questo disordine?

Tutti quei vestiti in giro
le camicie a maniche corte
si sdraiano sui maglioni di lana
che sperano in un’ultima giornata di pioggia
per ritardare l’attimo in cui saranno rinchiusi nel fondo d’un armadio
e poi chissà cosa può succedere in settembre
una nuova felpa viene assunta
prepensionamento e tanti saluti
un filo a forma di lacrima pende
vecchio golfino in fondo ai sacchi dell’ipocrita beneficienza
ma anche un girocollo a forma di sardonico sorriso
pensando gli abiti novizi
che ancora non conoscono i veri rigori invernali
e non immaginano quanto sia triste il buio di un guardaroba
quando la primavera si inoltra nell’estate
e un umano capriccio decreta la tua vecchiaia.

La casa è un tempio greco
“Ordine Dorico? Ionico? Corinzio?” – bravi, avete studiato
ma no, non è in nessun ordine
è anzi un disordine di tante piccole colonne
di CD e vinili, e libri, e riviste
parecchi ancora da leggere, da ascoltare
ma queste rovine di tempio non hanno tempo
di essere viste, studiate, magari riordinate
nessun ordine cronologico o alfabetico mi indica il percorso
e se cerco una metopa non la trovo mai
e senza cronologia non c’è tempo
tempo di leggere, di ascoltare, di sentire
ruderi, frammenti di un tempio
che non ha tempo di essere deframmentato.

Universo in briciole
un po’ come i pezzi di De Gregori, e allora
briciole di cioccolato briciole di colomba

briciole di democrazia briciole di bomba
briciole di pane briciole di pelle morta
briciole di breccia briciole d’ogni sorta.

Non trovo la scopa
per spazzar via tutte queste briciole
questi vecchi indumenti
questi parlanti argomenti
queste troppe parole
questi tanti ricordi, troppi pensieri
che fanno disordine là dentro
immagini che si sbriciolano
e cadono verso chissà quale suolo, danzando
come le foglioline nuove degli alberi
trafitte da milioni di fili di sole
che scaldano l’aria
illuminano questa dimensione psichica del disordine
e la polvere ci scia sopra, guardala
la vedi in controluce che ancheggia
e che alza un po’ di grigia neve
e non arriva mai a valle.
Che cos’è la polvere?
Briciole di briciole di briciole
i maglioni sparsi si sbriciolano
i miei libri, i miei disegni
tutta la mia carta si sbriciola
anche il mio modo di scrivere si sbriciola, dentro
non rimane che la forma esterna
un bel pullover che, domani
saprà già di vecchio
ma le parole non le puoi sbattere in sacchi
e darle in beneficienza per sentirti in pari
non le vuole nes-su-no.
Non le vogliono i bambini, stanchi delle stesse prediche
non le vogliono i morti, esausti di ascoltare preghiere non sentite
e chissà, sbricioliamo la loro anima con la nostro tritatutto materiale
comprato a rate, briciole di soldi non nostri
che ci riducono in ogni tipo di povertà.

Così i morti
alcuni briciole di fuoco in urne, o in oceani, o su campi da fertilizzare
insieme ad altri morti, che fertilizzano da dentro quello stesso terreno
mentre vermi ed insetti sbriciolano le loro casse, e i vestiti del loro commiato
e fanno a brandelli le loro carni
briciole di persone che abbiamo amato
di mani che abbiamo strette e di guance che abbiamo accarezzato
di occhi che non abbiamo dimenticato
non sono che proteine, senz’anima
e la terra è ormai tiepida e ben nutrita
e mille fiori e piccoli alberi cercano di penetrare il freddo marmo
anche nei campi santi è primavera
e quindi, pensate, vita.

Così
briciola su briciola scivoliamo verso un altro maggio
e dentro le case i troppi oggetti inutili spettegolano come casalinghe
e si narrano la leggenda delle pulizie di primavera
ed io le osservo inquieto
ché il disordine non lascia tranquilli
tanto più quello interiore
delle troppe cose da fare
dubbi da sciogliere
impegni da rispettare
nozioni da studiare
vecchie questioni da affrontare
e pensieri da ripensare
ricordi da riassettare
per ritrovarli, per non dimenticarli.
Le case sono zeppe di cose
le teste di preoccupazioni
tante persone sono piene zeppe di sé
il televisore è zeppo di immagini e suoni
pubblicità
la rete è piena di pesci
o di parole, a seconda dei casi
le carceri sono piene di innocenti
e ma zeppe di criminali
anche se alcuni disonesti sono pieni di soldi
i telegiornali sono pieni di disonesti
e di morti
come la terra.
Allora ecco che la primavera è zeppa di vita
e di un energia invisibile ma vibrante
e dunque basta una scintilla
in un mondo pieno di mondi
e di cose
e di briciole
basta un nonnulla
a far scoppiare qualcosa
ché la stagione bella è esplosa
la mia testa è lì lì
che cosa scoppierà adesso?
Magari nulla
e come spesso accade
la sensazione che qualcosa sta per accadere non è che uno scherzo
della mente che si prende gioco di te
e delle tue troppo domande sciocche
e poi
finisce il gioco
e ti dice
“smettila
di pensare
e di andare a capo
e di considerarmi zeppa, non lo sono
le mie briciole, se vuoi, si aspirano in un attimo
prova infatti a chiudere gli occhi
a respirare profondo
a goderti questo aprile
e gli alberi ringiovaniti, i prati rinsaviti
e le nuvole
e dimentica quegli abiti polverosi
quelle colonne in rovina
quelle troppe cianfrusaglie
e ricorda
che la tua casa è zeppa, si, ma di te”

Ascolterei il consiglio
scapperei da tutti gli sgabuzzini possibili
e butterei via le chiavi
e giù per le strade
nascosto nella folla e da essa cullato, protetto
e poi ancora via
dalle vie zeppe di vivi
cercando frammenti di natura
per respirare briciole d’erba e di corteccia
e di raggi di sole, di vento e di stelle
polvere di pace
ah, che bel finale sarebbe
ma non trovo il tempo
coraggio non ne ho mai avuto
ho solo briciole di speranza in un petto bucato
e scivolano via come le monete dalle tasche scucite
briciole per terra che i piccioni divorano
e che non posso più ritrovare
e comunque non potrei tornare indietro come Pollicino
neanche se avessi i sassolini e le tasche rattoppate
che invece ora si svuotano
e lanimo si impoverisce
e si impoverisce il mondo d’umanità
si ingrandisce l’inferno di anime
si arricchisce la terra di morti
e rimangono solo poche speranze, e molte briciole, e troppe parole
e nessuna di queste cose
potrà servirvi
saprà aiutarmi
o riuscirà a salvarci
dalle bombe, dalle briciole, dagli inferni
o peggio
dall’essere dimenticati
come quei vecchi indumenti feriti, poi soffocati
morti ammazzati in sacchi della spazzatura,
neanche i poveri li vorranno indossare
e chissà poi dove
al termine dell’esistenza
saranno andati a finire
e noi come loro
chissà

 

 

 

Big Electric Cat

Emozione forte
primi brandelli di rete
cuore in gola
come i primi giri
su una giostra nuova.
Poi incontri
un micio con le cuffie
dal muso bianco e blu
con gli occhi verdi
a forma di foglia
che ti dice: “Seguimi!”
ed entri con lui
nella sua cuccia biancogrigia
e gli fai un po’ di elettroniche coccole
e gli sussurri ciò che vorresti
e lui, felino, lo caccia per te.
Poi aspetti paziente
il gatto non dira “miao”
ma miagolerà vera musica
quella che gli hai chiesto
la sua binaria preda
che gentile ti dona
e che potrai ascoltare
quando la barretta bianca
che, magica, ti è apparsa
diverrà tutta blu
come la porzione di cielo
che si scorge una finestra socchiusa…
Un miracolo melodico
che a lungo mi stupì
e che mi rese meno povero.
 
Poi vennero a prenderlo, il gatto
e ora non è più lui
non è ne selvatico né magico
né io
sono più in grado
di spalancare la bocca
per un miracolo che
hanno imparato in tanti
e che, ormai
ho veduto troppe volte.
 

 
Quale pezzo (di cielo) ho ricevuto per primo?

(10 aprile 2005)

Ghost in the machine

Sono lì davvero, oppure no
certe sere alla guida
nel controesodo d’una giornata
mi faccio domande
sorpasso un autotreno e lo fisso
ma è come se guardassi oltre
mentre lui taglia a me la strada io la taglio alla mia concentrazione
la mente imita il vortice d’una ruota motrice che gira veloce
io stordito mi chino
appoggio la testa sul volante
e dall’ulcera gastrica lascio che coli l’acido
che mi consuma, mi digerisce
e corrode anche l’auto, sotto di me
e ne vedo il fondo
e il fondo stradale.
Questa rabbia non mi stimola, mi zavorra
e butto tutto il suo peso sull’acceleratore,
e schizzo veloce, ancora di più.
Questa rabbia che cova sotto la cenere
provo a farla esplodere annaffiandola di benzina
si accende un fuoco
no
è solo la costellazione di luci rosse
del moto delle macchine accanto
credo di squarciarne la scia
e invece ne faccio parte
e rotolo verso casa.
Ormai ubriaco di malinconia sbando sulle statali
e ci sono sere che la sbronza è più violenta
e stordente
e l’abitacolo è vuoto
un corpo meccanico comanda la macchina
mentre il mio spirito trasuda dal parabrezza
e si posa su un semaforo si sdraia su un incrocio si getta in un fosso
si nasconde in una cabina del telefono
dorme in un’aiuola
la macchina torna a cercarmi, a prendermi
forse un’anima più grande della mia abita in quel metallo
in quelle quattro ruote, se mi accompagnano per l’universo
non sano ma sicuramente salvo
nonostante
la mia disattenzione costante
poso gli occhi ovunque fuorché davanti
ora su di un ratto che scampa verso i campi
ora su qualcosa di indefinito, distante
poi guardo da vicino le mie mani sul volante
mentre
qualcosa o qualcuno
frena per me.
 
Poi la rabbia finisce
a cosa mi ha portato?
mi ha solo sfibrato
un altro po’
e penso a questo e sono ancora là
in orbita intorno alla città
in questo eterno vagabondare di auto
e luci e fumi e suoni
e le strade si consumano
noi esausti come l’asfalto
ci sfaldiamo
diventiamo piatti
come le scolpiture degli pneumatici consunti
e i pensieri come il traffico
circolano dentro arterie prossime al collasso
e i tarli scavano gallerie nel cervello
ecco perché mi rimbomba la testa…
E intanto le idee nuove se ne stanno in coda anche loro
forse muoiono in tremendi incidenti
forse dormono in qualche area di servizio
comunque non arrivano a noi
che aspettiamo – cosa aspettiamo?
non lo sappiamo
e mentre ce lo chiediamo
ce ne stiamo in apprensione
come madri che aspettano i propri figli
e vegliano accanto al telefono
o sulla soglia, a braccia conserte
e l’ansia cresce e i figli sfrecciano, quasi più sciocchi e rabbiosi di me:
magari arrivano prima
ma magari sbattono
e uccidono il figlio di un’altra madre.
Cosa vi dicevo?
il sangue può scorrere in un cervello così come su un’autostrada
e in entrambi i casi
non porta con sé nulla di buono.
 
Che ore sono?
è tardi
le strade si svuotano
le energie parcheggiano
e i semafori lampeggiano
noi come loro
soli ad un in incrocio
brilliamo ad intermittenza
di una tiepida luce arancione
che doniamo a quelle poche persone
che ci attraversano l’esistenza
che ci danno precedenza
e che ci perdonano se siamo un po’ ripetitivi
a corrente alternata
con il vizio della rima baciata
con il vezzo della similitudine
pieni d’ansia e solitudine.
Cari semafori umani, amici miei lampeggianti
probabilmente va bene così
chiediamo un po d'attenzione in più, sì
ma lasciamo passare tutti
molto poco autoritari
magari un po’ noiosi e sbadati
forse menefreghisti
lasciamo che le cose accadano
e diciamo “io non c’entro”
ma prima o poi, vedrete
ci sostituiranno con una grande rotonda
magari adornata da fiori e lampioncini
insomma bella e brava
la prima della classe
più o meno rispettata da tutti.
Intanto noi
dismessi, obsoleti
spenti e arrugginiti
chissà che fine facciamo.
 
Ho l’anima in manutenzione
e sono triste
perché so
che spesso i lavori in corso
non servono a rendere le cose migliori
se ti va bene diventi più funzionale
più razionale ma
sempre più uguale
a tutto il resto
standardizzato
privo di quell’imprevisto
che rappresenta un bivio
o un crocevia
o un incrocio con scarsa visibilità.
Pensiamo solo a sentirci più sicuri
ci lasciamo ingabbiare in prigioni di ovatta
come i matti
così se sbagliamo non sentiamo il dolore
e non moriamo più
ciò nonostante
siamo sempre meno vivi.
 
Se ho paura di soffrire
ho paura di esistere:
questo dico io.
Ma questo è quelli che forse dicono migliaia di altri individui
però entro nelle loro case
e vedo i loro armadi che esplodono di antidolorifici e sedativi
ed altre droghe a forma di cibo
e poi alcol e ancora alcol
e chissà quante altre medicine potrei trovare
quanti espedienti con cui la gente prova a dimenticare.
È così, e non c’è niente da fare
e scusate il giro di parole
volevo solo dire
che gli androidi sono qui, adesso.
Li incontri per strada
ma anche a casa, quando torni
e se ora spegni il monitor
ne vedrai di certo un altro
nel riverbero scuro
lì, davanti a te
e penserai “Accidenti,
sembra quasi
umano”
 

 

(28 marzo 2007)

 

Sotto esame

Sono le 4:38.
 
Sono sveglio, molto sveglio. Lucido, oserei persino dire.
 
Spizzico del cibo, sorseggio caffè tiepido, e intanto assumo pose fisiche e mentali così serie che mi vien da sorridere.
Da ridere, anzi. Ridendo, cade qualche briciola sulla tastiera e sul foglio degli appunti.
 
Che bravo stasera… uso internet per trovare informazioni, testi, qualsiasi cosa che sia utile allo studio.
E poi, cacchio, questo libro è pieno di citazioni di testi e autori che non conosco… rimandi filosofici e storici… figure di cui ignoravo l’esistenza.
OK, mi dico.
 
Elizabeth Eisenstein
Erica Jong
Marshall McLuhan
Pavel Florenskij
Fillia
Mathesis universalis
Aisthesis universalis
Proteus
Dictinna
 
 
Messi così fate paura (beh, quel McLuhan l’ho già sentito ma a che serve sentire se poi continui ad ignorare?). Google è il nome del prode mio alleato ed è grande, se si tratta di cavarvi fuori dalle caverne più oscure del sapere; la battaglia sarà dura, ma posso farcela.
 
E così, ricercando e appuntando tra un boccone, un sorso di caffè ormai freddo e un voluto sguardo assorto e corrucciato, mi fingo un po’ detective… insomma, non si finisce mai di giocare.
In cuffia c’è Vangelis.
Detective e cacciatore di androidi, ritiratore di replicanti, corridore sulla lama tagliente.
Mi credo (che sciocco) un po’ Deckard; come lui sono l’abitante della notte; sono colui che vive tra realtà reale e sogni sconosciuti; come lui, sono l’antieroe noir… quello che sbaglia, quello che non salverà il mondo, quello che forse finirà male alla fine della storia, quello che si sente fuori posto e che combatte il mondo che gli sta attorno, pur non avendone la forza.
 
Debole.
Debole nel mollare il buon lavoro svolto finora per gettare un occhio oltre la pagina a quadri, e dare una sbirciatina al forum per investigare su pensieri e piccole verità altrui.
 
Il companatico è finito, il pane come al solito gli è sopravvissuto di un morso.
Del caffè è rimasto solo il fondo bruno e denso dello zucchero non sciolto, buono da raccogliere con il polpastrello e da leccare.
Servirebbe un po’ d’acqua, adesso mi alzo.
 
Sono le 5:01.
 
Già sono lento di mio, figuriamoci se scrivo mentre mangio, succhio zucchero caffeinato e rileggo (ma non correggo) ogni frase appena scritta… e mentre rileggo, mi pulisco il dito, per non rendere appiccicaticcia tutta la tastiera. Sai che schifo, sennò.
 
La notte durerà ancora a lungo, ritornerò a indagare sui misteri dell’antropologia, di coloro che la insegnano, di chi ne pubblica libri a riguardo.
 
Ed io?
Giocherò ancora a fare il Blade Runner: ma non avrò bisogno di un videogame, per una volta.
 Prenderò altri appunti, farò più “copia/incolla” possibili, per creare quanti più file di testo… che vadano colmare la cartella di file ed il mio senso di colpa.
Pulirò la scrivania dalle briciole di pane, adagerò la tazzina nel lavabo e la sciacquerò prima che lo zucchero diventi cemento.
 
Insomma, è una notte come tante altre in fondo, ma nel cuore c’è un pizzico di serenità ritrovata; e tu ed io lo sappiamo che, nel bene e nel male, quello che ci lasciamo alle spalle è stato un giorno importante.
Comunque lo si veda.
 
E sono le 5:13.
Questo lunedì è ormai morto, ma andava conservato, imbalsamato insieme al suo ricordo, sebbene sia passato tanto tempo dall’ultima volta che ho scritto qui, a quest’ora.
Forse era tanto che, addirittura, di notte non pensavo proprio.
O meglio, non riflettevo.
Rifletto invece, stanotte, sebbene i riflessi siano quasi invisibili nell’oscurità.
Ma questo post è cromo opaco, è una pozzanghera torbida, è una finestra con le sbarre; riflette ciò a cui rifletto in malo modo, ma voglio io che sia così.
Tu puoi vederne l’immagine che ci ho proiettato sopra, e tenerla tutta per te.
Dolce o amara che sia, conservala e riguardala sincera, senza mentire a te stessa.
Quell’immagine siamo noi, spetterà a noi raccontarci che cosa ci vediamo dentro.

Pagine arricciate

Le lacrime sono una spaventosa, meravigliosa lente d’ingrandimento.
Una lente così potente da far apparire tutto troppo vicino, e illeggibile.
La visuale si amplifica e si confonde ad un tempo.

È tremendamente bello e difficile leggerci un libro.
Ma poi le pagine si inumidiscono e rimane quella fastidiosa, patetica grinza
al posto della goccia.
Il controllore, con tempismo orribile, mi chiede il biglietto proprio nel momento
in cui sono totalmente nudo.
Sconvolto,
coi nervi scoperti,
non copro gli occhi
ma il testo.

Il vero pudore appartiene al pensiero, non al corpo.

 

(gennaio 2008, leggendo… una cosa.)

Cosa mi sfugge. *Statua di sale. **Lifeline.

Sapete cosa mi sfugge? Il tempo.
Non mi riferisco all’eterno dilemma del tempo che scorre dall’esistenza, scivola da mani e occhi, gronda dalle nostre giornate sui nostri ricordi, gonfiandoli; come lacqua la schiuma. (ecco perché poi rimane solo la memoria: a volte soffice e impalpabile, a volte ingombrante, soffocante)
No, è il tempo altrui a sfuggire alla mia comprensione.
 
Come fate, Voi?
Voi che
vi incontrate
vi associate
vi scambiate messaggi, e oggetti, e persone
organizzate incontri
ballate balli
studiate, lavorate, aiutate
amate animali, e curate
amate umani, e seguite
odiate umani, e ferite.
Vedete cose
desiderate cose
comprate cose
mangiate cose
bevete una cosa
nel sangue avete… cosa?
E ancora tempo avete
per ascoltare mille melodie che non conosco
leggere mille libri, nemmeno la recensione ne ho letto
vedere mille film, nemmeno il tempo per procurarmeli avrei
e
scrivete fotografate
disegnate dipingete
insomma, create:
un atto che affermo in giro di fare
che vorrei fortissimamente fare
che in qualche sua applicazione, mi dico, so fare
ma che poi molto meno di altri riesco
a mettere in pratica, quotidianamente.
E invece voi mi rubate il mestiere
mentre io, pensandoci, mi rubo il tempo
e rimugino, e rimando ancora
come si rimanda un appuntamento importante
perché c’è la paura di arrivare impreparati
perché in fondo non si è mai pronti;
così facendo non mi butto mai,
così facendo mi butto via.
E resto indietro,
annaspo.
 

*

Me pigro
dalla realtà avulso
inerte apatico ignavo
me immoto
incastonato nelle solite cose
quello che faccio
quello che dico
non è che un’eco del giorno prima
del mese prima
dell’anno prima.
Mi riempio testa e cuore di promesse che poi non mantengo.
Non potendo poi farmi da me stesso lasciare, devo per forza giustificarmi
ingannarmi, tenermi buono, coglionarmi.
Allora penso che al mondo ci siano due categorie di persone:
gli attori
e gli spettatori.

Quindi mi dico: tu sei nato per assistere allo spettacolo
guardati, con la bocca socchiusa
la lingua fra i denti
lo sguardo incantato
talvolta annoiato, sì
ma ancora capace di restare ammirato
di provare stupore
di fermarti ad assaporare le cose che puoi
avaro di cose da dare ma devoto verso coloro da cui hai ricevuto
come oggi. Riemergo dalla metropolitana
una luce calma e tiepida si posa sulla coda del mio occhio sinistro
giro la testa
il cielo è un camino: grigio fumo le nuvole, sopra
scendono verso l’orizzonte diventando chiare come la cenere
un lembo tra loro e la terra
un’apertura in cui si intravvedono le brillanti braci del crepuscolo.
Su questo fondale quieto si stagliano le sagome nere dei rami nudi di foglie,
alberi già diventati carbone.
Il focolare del pomeriggio non scalda più l’aria, che pietosa non infierisce
fa breccia nella cerniera dischiusa
la sento pizzicare
mi si tuffa dentro, da sopra lo sterno
ma è frizzante come quella che mi bacia le guance
e la panchina laggiù sarà anche sola e gelida, però
l’inverno non è affatto male, certi giorni
e mi sorprendo ancora con quell’espressione inebetita
e per essa e ad essa
sono grato.
 
Questo è un dono. Con questo io non sto cercando di dirvi che io abbia un particolare talento nel saper apprezzare le cose, ma
c’è un corredo che la natura ci ha donato alla nascita:
è il nostro debito
e in cuor nostro sentiamo che il peccato originale sia in realtà lo spreco di questa dote
ecco perché ci diamo da fare
come quando proviamo a dimostrare a noi stessi che valiamo qualcosa
e ci promettiamo che la nostra vita non sarà un insuccesso.
Poi ci sono i regali che il mondo ci offre
come un cielo un sorriso una risata un
amore.
Il mio dono di oggi non era bravura, era solo una sensazione.
È giusto accontentarsi?
Forse sì, certe volte.
Rifiutiamo perle che il caso ci porge
non scartiamo certi regali solo perché non sono quelli che stavamo cercando.
Rischiamo di non accorgerci neanche di essi
forse perché troppo impegnati a correre,
a cercare di mantenere quella promessa.
Poi?
Magari finisce il fiato
la milza dolorante
l’aria gelida schiaccia i polmoni
la corsa rallenta
quindi ti fermi
la lingua penzoloni
curvo su te stesso
le mani sulle ginocchia
e pensi:
Ne sarà valsa la pena?
Tutta questa fatica, ma dovè che dovevo arrivare?
Magari non te lo ricordi neanche più.
Avremo fatto abbastanza?
E se anche fosse, saremo in grado di realizzarlo?
Realizzare qualcosa nella vita
per realizzare sé stessi
una possibilità che potrebbe anche stimolarmi
ma che se diventa una necessità può terrorizzarmi
ovvero farmi venir voglia di scappare dall’ennesimo obbligo
l’ennesima assenza di ogni senso, ogni desiderio.
 
Viviamo schiavi di quest’ottica del cammino
della vita come progetto
del suo senso posto per lungo, verso un traguardo da raggiungere.
Ma siamo sicuri abbia un verso, una direzione?
La vita mortale percepita come se in movimento
una visione dell’esistenza che condiziona il nostro modo di viverla
come quando, appunto, crediamo che il tempo sia qualcosa che ci sfugge
e crediamo sia nostro dovere rincorrerlo.
Ma come potremmo mai raggiungerlo?
Non siamo in grado di tenere il suo passo, anzi,
pare così veloce che, al suo cospetto, ci sentiamo fermi;
oppure non saremmo in grado di comprenderlo
se il suo passo stesso non fosse come il nostro
ma, per assurdo, fosse il nostro.
Che cosa cambia? Siamo stupidi e incompetenti
o quantomeno, più semplicemente
siamo privi di strumenti.

Come quando diciamo di sentire il peso dell’esistenza:
l’esistenza come un corpo che si può, si deve misurare.
Questa stolta necessità di calcolare
questa moda di definire tutti i numeri del creato, e mi chiedo:
che non siano proprio questi valori che all’esistenza applichiamo a zavorrarla,
a creare la suggestione di questa forza che pare tirarci l’anima verso il basso?
Sembra tirar così forte a volte, e con violenza
e se ci prende nel giorno sbagliato
inermi, siamo tentati di non opporre resistenza
di
lasciarci andare
con un tonfo
un masso nell’acqua.
 

**

Mi sentivo così stanco all’inizio di questo mio pensiero
adesso anche di più.
Nel patetico tentativo di trovare una scusa nuova,
ho trovato qualcosa su cui meditare.
Continuo ad ammirare voi, un poco geloso probabilmente
nel credervi – a ragione o torto – così industriosi
mentre io,
che per adesso mi tengo questa vita stritolata fra molteplici unità di misura,
viaggio lento.
Io sono un tale
il tale che troverete sul tram addormentato,
con la testa ciondolante, o la guancia contro il vetro;
sarò quello che si guarda la punta delle scarpe mentre cammina
quello dotato sì di due mani, ma solo con un guanto;
quello che sorprenderete col naso all’insù
forse starò fissando un manifesto
o la cima di un palazzo, o qualcosa che
sta in cima alla mia mente soltanto.
Io sarò quello che intralcerà il vostro marciapiede
perché capita che io mi fermi di colpo a cercare chissà cosa nella borsa
oppure che io mi areni davanti ai tornelli del metrò
in cerca di un biglietto che non trovo
che non
c’è.
Sarò quel tale solo-solo che si aggira per le vie della città
che sorride senza un motivo apparente e non fa nulla per dissimularlo
quello cui difficilmente squillerà il telefono nella tasca
e sarà ancor più strano se questo tale incontrerà qualcuno
un conoscente qualsiasi cui chiedere “come va, tutto bene?”;
quello di cui quindi raramente sentirete la voce;
quello che probabilmente nemmeno noterete
sempre che non dobbiate dirmi:
“scusi, permesso”
o “e levati dai coglioni”.
Io vi sentirò
mi sposterò
vi guarderò
e immaginerò
mi gusterò quest’idea che già adesso ho
ossia di aver incrociato proprio voi
cioè uno chiunque fra coloro che abbiano letto questo mio messaggio;
magari proprio tu
che mentre leggi, pensi:
magari proprio io.
Capito, che razza di presunzione?
È in questo genere di pensieri che amo specchiarmi
ahahah
presunzione, amo specchiarmi
sono le mie stesse parole a tradirmi
a tradire il mio narcisismo (per sua definizione contorto, perché deformante)
quindi a suggerirmi che, dietro alle maschere, io sia in fondo uno che si compiace
come per quella trovata di reinventarmi spettatore non pagante,
scelta più appagante, di certo più confortevole e magari più vigliacca

di quella di chi si ritaglia un ruolo da comprimario sul palcoscenico.

Credo di essere così acuto, ma mi viene il sospetto che io sia bravo
solo o soprattutto quando devo trovare giustificazioni per la mia accidia:
come ora, stanotte, in queste righe.
Ancora mi fisso le scarpe
ancora alzo la testa verso il cielo
un’altra richiesta di farmi da parte
e mentre i neuroni la traducono per i muscoli
mi aggrappo a un’idea che mi porti ad immaginare
quale sarà il prossimo omaggio del caso,
dietro a quale angolo, svoltando
potrò assistere a una nuova delizia inaspettata.
Mi scosto, e nel far passare il mio inseguitore
abbasso la guardia.
Il
mio senso d’inadeguatezza incalza.
M’inchiodano al muro i pensieri sulle troppe cose da fare
sugli impegni che mai rispetterò
sulle burocrazie invincibili
le occasioni perse e le occasioni che non mi sono creato
quelle che non riuscirò a strappare
i rimpianti, passati e futuri
ed altri cazzotti tremendi.
Alle
corde.
Qualcosa
mi spinge o mi tira
mi butta giù.
Eccolo, strattona forte.

Al tappeto, mento a terra
ancora più a fondo, sotto la linea di galleggiamento
il
masso nell’acqua.
La consapevolezza di una vita in cui non si debba per forza essere speciali
il mio boccaglio nuovo di zecca.
Non varrà molto, ma adesso n
on importa.
Prendo una profonda boccata di ossigeno e torno a galla, lentamente.