Quella sensazione antica e sempre inedita
di portarsi appresso un corpo
di non sapere dove andare a parcheggiarlo,
in quale punto cardinale dell’universo;
questo corpo
quanto ancora ha da durare?
L’illusione poetica e stupida
di poter percepire il peso di ciascuno
dei suoi singoli atomi
o di soccombere
sotto il peso della loro somma
materia impastata come un pane
che cresce cresce cresce
s’ingrandisce
arriva al suo culmine
quindi si ritira, veloce s’indurisce
raggrinzisce, poi cuoce
formando la sua crosta
come se lo spirito non fosse che
un lievito madre che genera infiniti pani
segnati da altrettante croci
e questo dramma o commedia
della vita che si rigenera
prima della sua fine
così che i figli dei suoi figli dei suoi figli
possano continuare a sfornare altri figli
una catena eterna di cellule o batteri
che si dividono per raddoppiarsi
e si dividono e si dividono
in un crescendo di perfette metà
l’incommensurabile bellezza dei frattali
la perfezione geometrica dei cristalli
di neve, o la matematica sublime
del broccolo romanesco e dell’altre mille
forme che non riusciamo a vedere
o forse vediamo, ma senza capirle.
Il molto piccolo che si reitera
per farsi grande, ancora di più
però restando uguale a sé stesso
il macrocosmo là fuori
e il microcosmo all’indentro
che si specchiano a vicenda
così la vita cresce simmetrica
attorno al suo centro
fino a che il pensiero non la intacca
rendendola storta, sciatta
inadatta
e di stortura in stortura, di stortura in tortura
fino a che i figli dei figli non cominciano a dividersi
a farsi a pezzi fra loro
con tagli sgraziati e asimmetrici
eccentrici e ferali
senza spazialismi o altri filosofeggiamenti, vaneggiamenti
solo la ferocia ancestrale di colpi bestiali
come se un corpo non fosse già doloroso e mortale abbastanza
anche prima dell’invenzione di quest’orrida messinscena
che chiamiamo civiltà
come se avessi bisogno del tuo fuoco, del tuo coltello
per sentire lo strazio di questa pelle
la sua fragilità
l’ho sentita oggi, attraversando un incrocio
rosso e verde di semaforo, per tre secondi arancione
l’ho sentita, la pelle, sferzata dai venti del Nord
l’ho sentito, lui, ridestarsi dal sonno della ragione
questo me, chiuso nella sua buccia o crosta
pelle dura di corda
che un archetto di violino la potrebbe suonare
ma pelle sottile di sangue
che quell’archetto la saprebbe squarciare
con un’insostenibile musica
irradiata dalla cassa armonica
della mia gabbia toracica
accordata sul manico
della mia spina dorsale.
Poco prima
sulla sommità di una via in discesa
pensavo alla gravità che chiama verso terra
pensavo a come chiudere gli occhi, per dirle Sì
magari rotolare fino alla fine del pendio
quindi trovare un posto dove parcheggiarmi
in cui restituire alla terra questa massa di batteri
questa massa sgraziata e pesante
che sta in piedi per miracolo o per caso.
La vita organica, questo fatto misterioso
inarrivabile per bellezza e per orrore insieme
anche se io non posso capire
non so neppure quale sia l’algoritmo naturale
su cui si basa la costruzione di questo stesso pensiero
che nella via era unico
liquido e inafferrabile, un flusso
e ora è qui a dividersi, in parole, per moltiplicarsi
per diventare altro da sé
come unico modo per restare
ciò che era
e così io, che mi taglio e mi divido
mi separo, come unico modo per non perdere
ciò che sono.