Rivelazione

Il sogno da bambino
di essere magici, diversi
svegliarsi un giorno e rivelarsi
a sé stessi, al mondo 
con talenti, miracoli celati 
e lasciare tutti incantati 
mostrando di saper volare, 
anche solo levitando 
di una spanna, un palmo
sopra la buccia del suolo
in un istante cristallino e calmo.

Chiamare a sé
un merlo dal becco giallo
o un pettirosso, una rana verde
con un semplice gesto
uno sguardo, un fischio
un canto nella loro lingua 
e lasciare tutti incantati 
mentre la creatura salta in braccio
«Visto!», dirsi, «Posso farlo!» 
e anche solo per un attimo
ammutolire la buriana.

Una figura non terrena 
d’oltre tempo, d’oltremare 
avrebbe allora attraversato i ghiacci
e il tempo e la sua rena
per vedere il mio raggio di luce 
e dirmi, «lo sola t’ho visto», dire,
«Siamo al mondo per volerci bene».
Io l’avrei chiamata, senza fiatare
e prima di prenderla in petto,
nella sua lingua, le avrei detto:
«Su, vieni, ché andiamo».

Era possibile, era possibile 
mentre passeggiavo da piccolo 
con una mamma, sotto i platani 
in quella via paesana in discesa 
larga ai miei occhi bambini
come una Prospettiva russa
e accanto a noi quel muro
che indossava un mosaico 
celeste e bianco e marrone 
di cui mille tessere, ho perduto 
nella dimenticanza.

Stasera, nella via cittadina
tornavo, con una cena da passeggio
e pensavo, nel chiarore della sera
che è possibile, ancora, immaginarlo
con la musica e nella musica
nelle parole dei buoni scrittori
o degli scrittori buoni,
posso ancora incantare i presenti
mentre ricompongo il mosaico
e torno piccolo e vado, volando
a salvare una tristezza.

Perchance to dream

L’avvicinarmi alla soglia sonno, il prepararmi ad attraversarla, è una delle pochissime cose che mi emozionano più oggi che un tempo. Decenni a maltrattare il mio sonno, a sottovalutarlo, a derubricarlo come tempo sottratto al vivere e al pensare attivamente. Quando talvolta è proprio il pensare, invece, ad essere sopravvalutato.

Non che dormire equivalga a morire. Anche se mi affascina l’idea che il cosiddetto sonno eterno, oltre che riposante e liberatorio, possa infine anche rivelarsi simile a quel che la coscienza sperimenta nei sogni. I sogni in cui si può planare cadendo dal cielo, essere ancora piccoli, esplorare il mondo, attraversare il mare, non aver paura e dunque riuscire ad amare, amare chi si vuole, senza vergognarsi né temere di sbagliare. Sogni primitivi e innocui al contempo, come le bestiole che eravamo e che ancora siamo, per tanti versi, sotto tutti questi strati e substrati evolutivi e culturali che ci siamo cuciti addosso, nelle epoche.

Ecco: dormire, anche più del mangiare e persino più dello scopare, rivela la parte meno controllata e più selvaggia di noi. Il sonno al suo interno contiene un mucchio di cose; ma in quel mucchio, non c’è la possibilità di frenarsi, né quella di mentire. Per questo, forse, mi emoziono: addormentarci significa ricongiungerci con le nostre verità più recondite, calandoci nell’abisso in cui esse sono custodite. Almeno per qualche ora, a patto di ricordarne poco o nulla, una volta tornati svegli. E intendiamoci: è un buonissimo affare.


Buonanotte, C.

(6 ottobre 2022)

Il male concentrico

Quella sensazione antica e sempre inedita
di portarsi appresso un corpo
di non sapere dove andare a parcheggiarlo,
in quale punto cardinale dell’universo;
questo corpo
quanto ancora ha da durare?
L’illusione poetica e stupida
di poter percepire il peso di ciascuno
dei suoi singoli atomi
o di soccombere
sotto il peso della loro somma
materia impastata come un pane
che cresce cresce cresce
s’ingrandisce
arriva al suo culmine
quindi si ritira, veloce s’indurisce
raggrinzisce, poi cuoce
formando la sua crosta
come se lo spirito non fosse che
un lievito madre che genera infiniti pani
segnati da altrettante croci
e questo dramma o commedia
della vita che si rigenera
prima della sua fine
così che i figli dei suoi figli dei suoi figli
possano continuare a sfornare altri figli
una catena eterna di cellule o batteri
che si dividono per raddoppiarsi
e si dividono e si dividono
in un crescendo di perfette metà
l’incommensurabile bellezza dei frattali
la perfezione geometrica dei cristalli
di neve, o la matematica sublime
del broccolo romanesco e dell’altre mille
forme che non riusciamo a vedere
o forse vediamo, ma senza capirle.
Il molto piccolo che si reitera
per farsi grande, ancora di più
però restando uguale a sé stesso
il macrocosmo là fuori
e il microcosmo all’indentro
che si specchiano a vicenda
così la vita cresce simmetrica
attorno al suo centro
fino a che il pensiero non la intacca
rendendola storta, sciatta
inadatta
e di stortura in stortura, di stortura in tortura
fino a che i figli dei figli non cominciano a dividersi
a farsi a pezzi fra loro
con tagli sgraziati e asimmetrici
eccentrici e ferali
senza spazialismi o altri filosofeggiamenti, vaneggiamenti
solo la ferocia ancestrale di colpi bestiali
come se un corpo non fosse già doloroso e mortale abbastanza
anche prima dell’invenzione di quest’orrida messinscena
che chiamiamo civiltà
come se avessi bisogno del tuo fuoco, del tuo coltello
per sentire lo strazio di questa pelle
la sua fragilità
l’ho sentita oggi, attraversando un incrocio
rosso e verde di semaforo, per tre secondi arancione
l’ho sentita, la pelle, sferzata dai venti del Nord
l’ho sentito, lui, ridestarsi dal sonno della ragione
questo me, chiuso nella sua buccia o crosta
pelle dura di corda
che un archetto di violino la potrebbe suonare
ma pelle sottile di sangue
che quell’archetto la saprebbe squarciare
con un’insostenibile musica
irradiata dalla cassa armonica
della mia gabbia toracica
accordata sul manico
della mia spina dorsale.

Poco prima
sulla sommità di una via in discesa
pensavo alla gravità che chiama verso terra
pensavo a come chiudere gli occhi, per dirle
magari rotolare fino alla fine del pendio
quindi trovare un posto dove parcheggiarmi
in cui restituire alla terra questa massa di batteri
questa massa sgraziata e pesante
che sta in piedi per miracolo o per caso.
La vita organica, questo fatto misterioso
inarrivabile per bellezza e per orrore insieme
anche se io non posso capire
non so neppure quale sia l’algoritmo naturale
su cui si basa la costruzione di questo stesso pensiero
che nella via era unico
liquido e inafferrabile, un flusso
e ora è qui a dividersi, in parole, per moltiplicarsi
per diventare altro da sé
come unico modo per restare
ciò che era
e così io, che mi taglio e mi divido
mi separo, come unico modo per non perdere
ciò che sono.

No
nessun timore si abbia, di far del male
a quest’uomo e al suo corpo
nessun timore
di fare male a quest’uomo,
al suo sentire storto:
ci penso già io
a darmi torto a farmi un torto,
A darmi per morto
son già così bravo io
già, così bravo,
io.
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Like a memory gone

Il pomeriggio troppo assolato per far baccano, il traffico che defluisce lontano, sulla costa, la posta senza lettere e consegne le insegne spente senza una lettera, botteghe serrate serrande calate, le scuole sbarrate e silenziose, con le cattedrali della burocrazia che fanno meno paura, tutti via, evasi dalle loro quattro mura, son rimasti solo i gatti nei vicoli ed eccoli, infatti, rettangoli mai visti vuoti prima d’ora tra le auto in sosta nei parcheggi in diagonale, le piccole stazioni da treno regionale semideserte, le finestre tutte aperte, le carte di giornale o dei gelati dei maleducati come ballerine di danza classica nel vento caldo, i marciapiedi liquidi e le pensiline come ultimi ripari, i cieli ampli e non ce ne voglia l’inverno, i crepuscoli senza pari. Città vuota e città di vetro, guardarsi indietro, ché dietro c’è tempo, e davanti c’è spazio, gli spiazzi le piazze i muri i tetti, le nuvole che avanzano veloci oltre la linea frastagliata dei palazzi, nuvole che non piovono o forse un poco, temporali, telegiornali e l’ansia di stare nella storia, anche attraverso una sparatoria, ché basta chiamarla guerra, così tutto sembra più importante – basta che la strage non entri casa, ma nemmeno sia troppo distante. Non ho ansia, solo un groppo in gola, sola la musica consola, nell’attesa delle persone pulite, gli affetti che profumano di buono, come gli odori dell’infanzia. Fiorenza Roma e Milano, Vicenza la Brianza San Colombano, Napoli Bologna San Gimignano, in mezzo Tolmezzo, Ravenna Ferrara Pistoia Piacenza, Lodi Vasto Collodi, mi fermo, da Palermo a Cherso, di nuovo Milano, mi sono perso. La scia di un aeroplano, tante scie di aeroplani, che bianche di latte fanno il cielo a fette. Sotto, biciclette dimenticate in qualche parcheggio, biciclette rubate e biciclette a noleggio, i tram non hanno più fretta, le persone non hanno più volto, le sagre di paese che non hanno fine, il camminare che si libera dal fine, le colline i vigneti in fila indiana fin già nella piana, l’afa padana che toglierà anche il fiato, ma che a volte è solo un afflato più delicato, mica affanno, non è malaria di antica palude né altro malanno, è solo sole che elude l’ombra e brucia i pioppi e fa evaporare l’acqua dei canali e dei torrenti e dei grandi fiumi e i fumi sono carichi di una nostalgia che non sai, ma che puoi sentire anche se in certi luoghi non ci sei, o se ci sei passato mai. Il settimo e l’ottavo mese toglietemi tutto, ma soprattutto, la frenesia. E lasciatemi quell’altra cosa che farebbe ancora rima, ma che solo a nominarla, già non è più, se ne vola, via. Come quando la rinneghi, ma poi subito ti manca, quando poi non la trovi più ed allora non te lo spieghi, dov’è che ora sia.




(2016-2020)

Caro Mario (malgré tout)



Mario Luzi  (20 ottobre 1914 – 28 febbraio 2005)


Ma se avesse ragione,
caro Mario,
chi dice che il tutto
si specchia nel niente?
Se tutto fosse possibile
– Tutto, incredibilmente

ma poi, al termine del giorno,
non restasse che il trepidare in sé 
delle attese?
Il senso desidera e vede
quel che desidera vedere:
ma se, anche nel risveglio del fiume,
ogni probabilità che fluisce
non fosse che apparente.
E se ciò che arriva per primo
non fosse tutto ciò che realmente è
nel suo immanente potenziale:
trascorsa la novità, l’ordinario si sostituisce
allo speciale;
e mentre il verde dei salici scurisce
il sensibile si fa trasparente.

Affrancare, affrancarsi

Immaginate di scrivere con i vostri sentimenti più sinceri e con la vostra miglior prosa una lettera per qualcuno che avete a cuore. E poi immaginate quel foglio cesellato di parole accuratamente ripiegato, ficcato dentro una busta da lettere ben chiusa. Una bella busta bianca, immacolata e muta, senza la traccia di un indirizzo e priva di un qualunque francobollo, posata su un tavolo o sul fondo di un cassetto a prendere polvere.

Di questo si tratta: non comunicare con i destinatari dei nostri pensieri è qualcosa di completamente inutile e ozioso. E tanto più lo è quanto più quei pensieri sono importanti, urgenti, a loro modo vivi. Come dire: è proprio un gran peccato, tenerseli tutti per sé.

Del resto, una cosa bella di cui nessuno sarà mai a conoscenza non è reale bellezza: è solo il nulla assoluto. Come quando non riveliamo a una persona che le vogliamo bene finché ne abbiamo la possibilità. Perché? Un rimpianto eterno per non sopportare un attimo di vergogna?

La vita mortale è un po’ come una batteria della quale non conosciamo la carica: non sappiamo esattamente quando si esaurirà, potrebbe durare ancora a lungo, ma potrebbe anche abbandonarci da un momento all’altro. E il pudore? Be’, è una grande virtù, purché ci aiuti ad essere selettivi nel nostro mondo intimo e non sia, invece, una scusa per erigere un muro di cemento armato tra noi e il resto del mondo.

Il punto è semplice: rimandare, procrastinare, avere troppi scrupoli, censurarsi… sono elegantissime idiozie. Così spesso preferiamo i modi discreti alla franchezza, o un educato imbarazzo all’essere spontanei e concreti; intanto, il tempo ci scappa di mano.

Ma come ci facciamo male da soli, noi umani, non lo sapremo mai fino in fondo.

In questo gioco macabro, prigioniero e carceriere sono divisi soltanto da uno specchio.

La ragione è scritta sui rovi

A volte penso: come esseri viventi, in natura, nasciamo possedendo già ogni cosa. Ma il tempo cambia le cose: ora le cura, ora le guasta, talvolta non basta. Ed ecco che la storia di ogni persona vengono inoculati, come inevitabili vaccinazioni, i desideri, fisiologici come colture di batteri, che spingendoci a volere sempre un po’ di più, ci portano via via ad avere sempre un qualcosa di meno.

Così rotonda e pura, la pienezza dell’infanzia: non solo la nostra, anche quella della Terra. Poi: irrompe nella Storia la comparsa degli uomini, l’invenzione della storia stessa, quella del denaro, quella della guerra. E a quel che già c’era – i terremoti nepalesi o irpini o californiani o giapponesi, gli uragani tropicali, i vulcani filippini o australi, un asteroide ogni milione di anni, altri danni astrali – si sommano i figli degli uomini, con la loro cosiddetta civiltà, ben presto infettati da un’incurabile e infinita malattia chiamata avidità. Carestie e siccità, Chernobyl e Fukushima, il Vietnam dopo Hiroshima: funghi atomici e disastri nucleari, i veleni nei mari, la Louisiana e centomila altre petroliere, le pesti nere, i nipoti degli uomini, il loro presunto progresso, la loro sconfinata stupidità. La moria delle minuscole api che ci condannerà a una scomparsa certa e forse lenta, ma molto più prossima dell’implosione del gigantesco Sole; l’estinzione di intere specie animali o vegetali, così come la morte di una sola bestia, o di una bestia sola; la caduta di un solo alberello, la secchezza di un solo ruscello, l’avvelenamento di qualsiasi fiume; della vita come la conosciamo, lo spegnimento di un qualunque barlume.  

È vero, mi sono perso. Un ragionamento che non porta in sé soluzioni è una sconfitta. Un esercizio inutile che non fa testo, come un bel dipinto arrotolato o un manifesto impolverato, perso chissà dove, fra gli scaffali d’una soffitta. Nel percorrere il nostro tempo mortale così come nel volerlo indagare, l’esito è spesso analogo, se non uguale: non facciamo altro che perdere, perdere, perdere. Perderci. O essere smarriti, come monete sul viale, scivolati dalla tasca bucata di chi con sé ci portava. O sottratti dalle dita di chi a noi ci teneva, non importa. Non importa se avremo torto oppure ragione. Non importa quanto avremo speso e neppure cosa avremo accumulato: nulla potrà essere venduto, tutto sara sperperato. Alla fine della strada, comunque vada, avremo perduto. Spogliati, come alberi sfogliati dai venti e dall’autunno. Nullatenenti, per sempre nudi, su noi stessi riversi: alla fine, saremo persi.

(2015)

With random precision

Non toglietemi mai la possibilità di sbagliare. Ovvero, la libertà di farlo – ovvero, la libertà.

Se dalla mie scelte dipendessero altre vite, credo che non potrei.
Se manovrassi una gru o conducessi un treno o un tram urbano, non so se potrei.
Una svolta troppo larga, una curva troppo veloce, una sola distrazione.
Non dico che non ne sarei capace: dico che sarebbe troppo.
Quando non avevo ancora la patente, sognavo corse disperate e manovre folli. Restavo vivo per miracolo, controllando qualcosa che controllare non sapevo. Poi mi svegliavo, e pensavo: non imparerò mai a guidare. Invece, con qualche piccola fatica, imparai. E a parte qualche graffietto in parcheggi troppo azzardati, solo una volta persi davvero il controllo. E mi bastò; e se in seguito riuscii a perdonarmelo, fu solo perché non misi in pericolo altre vite oltre a quella mia.

I processi creativi sono tutta un’altra storia.
In essi, un errore è un’opportunità.
Chi mi ha visto disegnare, forse s’illude che io abbia una totale padronanza degli strumenti.
Niente di vero: ho solo la serenità di chi è pronto ad accogliere gli inevitabili sbagli.
Nessuna vita in pericolo. Nessuna possibilità di creare dolore.
Non temo gli sbagli che possono essere salvati, ossia ricoperti, sovraincisi, mascherati. O, nelle giornate giuste, trasformati in qualcosa di meglio.
Parallelamente, non amo cancellare. Non butto via niente. Non voglio fingere, né barare. Per questo, per esempio, preferisco la penna biro alla matita.
Ma non mi spaventa la possibilità di perdere il controllo, se questo non mette in pericolo persone, valori, pensieri.
Mi piace il caso.
Mi piace quando, per opera di esso, si genera una novità imponderabile e per questo spontanea, assoluta.
Mi piace quando un incidente di percorso non è che una porta che si apre su altri orizzonti.
Mi piace trasformare i difetti in imperfezioni, gli scivoloni in tuffi, le incomprensioni in significati aggiuntivi.
Mi piace poter sbagliare senza doverne avere paura.
Amo quello che si crea senza esser stato ponderato.
Ho un gran bisogno di sbagliare.
Lasciatemelo fare.

Nebbia a banchi

Alle volte è come se riuscissi a comprendere l’umanità tutta fuorché me stesso. Altre volte è come se non conoscessi nessuno per davvero, fuorché me stesso. Quando accade la prima ipotesi è tutto più faticoso ma, al contempo, più stimolante e vitale. Quando a manifestarsi è la seconda possibilità, invece, tutto sembra più facile e comodo, ma in realtà è anche più amaro.
Com’è strano. Pare quasi un paesaggio nella nebbia: le cose intorno continuano a esistere, ma non possiamo vederle. E l’occhio resta solo a fissare le linee verniciate sull’asfalto. L’auto si perde nella pianura bianca, il viaggio perde la sua armonia. E la mente si perde a camminare in bilico sulla linea continua ______ , ora tratteggiata – – – – – . Bisogna saltare. O cadere tra un segmento e l’altro, come ad un tratto, nello spazio vuoto tra due trattini.
Ma questa nota è come l’insufficiente luce arancione del lampione che non riesce a illuminare la curva troppo stretta: sono finito fuori strada.


(assegno post datato un decennio fa)

20 di Scirocco

E così, come d’improvviso, ci diamo reciprocamente il benvenuto in questi attesi anni 20; che però non sono gli Anni Venti così come eravamo abituati a considerarli fino a qualche giorno fa e dei quali credevamo di avere una vaga idea  – ossia i 20 del Novecento, cosiddetti ruggenti, da cui siamo lontani ormai un secolo pieno. Da non credere: questi nuovi vénti ci toccherà persino viverli, stavolta.

In realtà è sempre la solita storia: il nuovo decennio, volendo fare i precisini, inizierà soltanto il 1° gennaio dell’anno prossimo. Allo stesso modo in cui il primo anno del III millennio d.C. fu banalmente il 2001 e non il Duemila tondo. Perché? Perché in termini cronistorici si conta da 1 a 10, non da 0 a 9. Non sto scherzando.

Un paio di sere fa, preparando la cena, mi è venuto a trovare un paradosso. Adoro simili visite, ho un forte debole per tutto ciò che è assurdo o che rappresenta un controsenso. Così come mi piace assai ciò che un senso non ce l’ha proprio. Ad ogni modo, il paradosso mi ha suggerito più o meno questo: «sai cos’è che senz’altro non è più in voga? l’espressione stessa (essere) in voga». Non so, trent’anni fa ci saremmo limitati a dire che esserlo ancora fosse il colmo per un canottiere andato in pensione. E ne avremmo persino ridacchiato.

Certezze ce ne sono poche, questo sì. Il mondo è cambiato, inevitabilmente; ma verosimilmente sono cambiato pure io con esso. Ché probabilmente si cambia sempre assieme, come un’immagine viva che cambia congiuntamente al suo riflesso nello specchio o alla sua ombra proiettata dalla luce del fuoco sulla parete di quella vecchia caverna. Insomma, tutto muta e tutto si muove. Evolve, certo, ma non necessariamente progredisce. Anzi: più passano gli anni – i miei – e più ho l’impressione spiacevole che ciò che mi circonda stia tendenzialmente degenerando, perlopiù. Per esempio la mia scrittura, come quando faccio abuso di avverbi.

Appunto per il nuovo decennio non ancora iniziato: “Se nulla accade, dovremmo esserne grati”.

Peraltro credo proprio che la gratitudine sia il sentimento preferito in assoluto del me del presente. Anche se ultimamente sembra essere molto poco in voga, la gratitudine. Appunto.

Chissà, magari negli anni Trenta torneranno di moda idee al momento impensabili o non più pensate, parole non più dette e sentimenti non più sentiti, fantasie dimenticate per colori attualmente stinti e tante altre cose che, nel frattempo, avremo creduto estinte.

Raggiungersi

Con questa pioggia
la casa silenziosa
sonno che arriva presto
vetri che tremano
neanche una boccata di nebbia
è tutto chiaro, spazzato dal vento
mi si calma il respiro.
Il respiro.
Inspiro dal naso,
mi sale la marea nel petto
poi torna ad abbassarsi, veloce.
Riprendo intanto La musica del caso
e mi raggiungo nel letto:
sdraiato, osservo il soffitto
le mani intrecciate dietro la nuca,

il libro sul costato
e mi dico, senza voce:

ma che inverno sudato
come una primavera precoce
solo più fredda e più buia.
Ancora accesa la piccola luce.
Mi guardo e mi riconosco nelle foto

di quest’anno interminabile
lungo lungo e molto storto,
come un adolescente con la scoliosi
venuto su troppo in fretta
con un punto di domanda
come colonna vertebrale.
Ma per quello che vale
penso e mi ridico
che forse son tornato davvero
dalla galassia lontana dov’ero
dallo spazio remoto e nero
e capisco di aver ricominciato
a volermi bene
anziché volermi soltanto:
senza formule, rinconciliato
al di là delle pose,
senza complicare apposta le cose.
Là fuori intanto
a intervalli casuali,
lungo fiumi chiamati viali
sento trascinarsi pneumatici
sull’asfalto inzuppato
che biascicando mi comunicano il passaggio
di vetture con motori infaticabili,
dirette verso chissà quali mete
magari di ritorno
verso chissà quali case.

Tutto compreso

«Tu hai bisogno di carezze», mi disse.

«E da cosa l’hai capito?» le risposi, con fare indagatore.

Temevo che il mio interesse per le cose povere, stortignaccole e umili la portasse a pensare che non mi stavo trattando bene. Come per la mia colazione in uno di quei bar tristi, perennemente semivuoti che non si sa come facciano ad andare avanti; eppure reali, autentici, nei quali – per esempio – puoi osservare il barista che, dopo aver servito il cappuccino ad un anziano cliente abituale, si premura anche di instillare negli occhi malandati la dose quotidiana di collirio oftalmico: servizio compreso nel prezzo. Tutto questo mentre fuori un vento sincero, deciso ma non violento, soffiava e si portava via la nebbia, le nuvole e un po’ della mia stanchezza.

Dalla foto della mia tazza su quel tavolo sgombro e pallido, ornato solo di una stropicciata Gazzetta dello Sport, lei avrebbe potuto dedurre che io mi stessi buttando giù, in quel continuo mio accontentarmi del minimo, in quel mio volermi adagiare nell’anonimato della modestia, per me così rincuorante. E invece, con una breve ed asciuttissima frase di risposta, mi fece capire come avesse a sua volta capìto. Non so come, ma comprendeva che quello fosse un mio modo per carezzarmi da solo, a modo mio. E a quel punto avrebbe voluto aggiungere la sua, di dose di carezze, con le sue mani in quel momento lontane.

Se solo lo avesse immaginato, che la sua comprensione profonda mi aveva carezzato in punti dove neppure il mio stesso palmo era riuscito ad arrivare. O chi lo sa, forse se lo immaginò nitidamente, con quella sua capacità di percepire limpida come il cielo di quella calma mattinata, col suo azzurro tirato a lucido dalla tramontana di fine autunno. I gingko biloba, ignari di tutto, grondavano oro dalle loro chiome brillanti e rigonfie, colorate da far invidia a una primavera.

L’oroscopo dei sensi

  • Vista: la usate tanto, troppo. E malissimo. Siete invece dei campioni nel senso della svista.
  • Gusto: più che altro, il vostro è disgusto. Al contrario, se si tatta di piacere, avete la tendenza a sprecarlo.
  • Tatto: se solo non ve lo dimenticaste, vi darebbe un mare di gioie. Per non parlare del fatto che vi salva la vita praticamente ogni giorno. (tralasciamo la questione di usare male la vista, per cui c’è persino chi lo confonde con il tattoo)
  • Udito: è un dono meraviglioso, ma c’è chi riesce a farne un uso orribile. C’è poi una cosa chiamata coscienza, che a differenza della musica, è in grado di veicolare la sua voce solo da un lato per volta. Ma, incredibilmente, l’orecchio a cui vi parla è sempre quello da cui non ci sentite.
  • Olfatto: non lo usate, se non per lamentarvi. E non avete neanche fiuto.
  • Sesto senso: ce lo avete più sviluppato di quanto crediate, ma lo usate più che altro per alimentare fobie. Se siete maschi, spesso lo snobbate per illudervi più virili.
  • Buonsenso (bonus): non è un senso vero è proprio, ma la maggior parte delle persone lo chiama ancora con quel nome. E mi domando a che pro, visto che si è estinto già dalla fine del secolo scorso.

#snobissimo